Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 15/09/2023, a pag. 13, con il titolo "Mahsa e le altre" l'intervista di Greta Privitera.
Qualche giorno fa, la polizia è entrata di forza nella casa della famiglia Najafi, a Karaj, a ovest di Teheran, e ha portato via Amir, il fratello più giovane. «Ora è di nuovo libero, ma è un anno che le autorità ci ricattano minacciando di fargli del male. Abbiamo paura per lui», ci dice Afsoon Najafi, appena fuggita dall’Iran. «La Repubblica islamica punisce le famiglie che parlano. Ma non posso accettare che mia sorella sia morta per niente». Hadis Najafi, 22 anni — una delle ragazze simbolo della rivoluzione — il 22 settembre è stata uccisa mentre protestava dalle guardie di sicurezza. Prima di morire, ha pubblicato un video su TikTok: «Fra qualche anno spero di riguardare queste immagini e di essere contenta di aver preso parte alle proteste perché tutto sarà cambiato».
Quando ha visto questo video? «Qualche ora dopo la sua morte. Hadis ha filmato anche un altro messaggio destinato a noi, che ha girato agli amici più stretti. Diceva: “Se nella vita ho ferito qualcuno vi chiedo scusa. Se non torno mandate queste parole alla mia famiglia».
Immaginava che sarebbe potuta morire? «Quella sera, si era diffusa la voce che la polizia avrebbe sparato. Lei è tornata a casa a un orario insolito, doveva essere di turno al ristorante. Ha messo nello zaino un cambio e ci ha comunicato che sarebbe comunque andata a protestare».
Un cambio per cosa? «Si fa così: si protesta e poi ci si cambia i vestiti per non essere identificate». Come avete saputo della sua morte? «Non rispondeva al cellulare. Mia sorella è stata uccisa alle 9 di sera, lo abbiamo saputo alle 2 di notte. Ci ha scritto una signora su Telegram mandandoci la foto di mia sorella sdraiata su un lettino dell’ospedale, con il corpo coperto di sangue».
Haids era un’attivista? «Era una ragazza che voleva vivere in un Paese libero. Non apparteneva a nessun gruppo politico. Sapeva che in altri Paesi nascere femmina non era una condanna. La morte di Mahsa l’ha sconvolta».
Racconti. «Ha pianto per giorni. Non si dava pace e ha preso subito parte alle proteste. Ha visto nella risposta del popolo iraniano una possibilità di cambiamento». Come avete vissuto questo anno? «Soffrendo, ma cercando di denunciare. Per settimane, le forze di sicurezza sono venute a casa costringendoci a non uscire, a non mandare messaggi, né usare i social. Al 40esimo giorno dalla morte di una persona, da noi è tradizione ritrovarsi: ci è stato vietato. Hanno blindato il cimitero dove si trova la tomba di Hadis, ma in suo onore, centinaia di persone hanno bloccato l’autostrada dando vita alla protesta più grande di quei mesi. Che orgoglio».
Come hanno giustificato la sua morte? «Le autorità non ci consegnavano il corpo. Il primo referto dell’ospedale diceva che era morta a causa dei proiettili. Poi, ogni giorno, per settimane, hanno portato mio padre in un commissariato dalle nove di mattina fino mezzanotte. Lo insultavano, minacciavano, lo hanno riempito di psicofarmaci. Volevano che firmasse un foglio in cui c’era scritto che Hadis era morta in un incidente».
Chi era Hadis? «Era luce. Aveva molti amici e moltissimi follower sui social. Sognava di andare all’estero e continuare gli studi in fashion design e intanto lavorava come cassiera in un ristorante. Voleva vivere».
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