Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 04/09/2023, a pag. 33, l'articolo di Andrea Riccardi dal titolo "Le complicità della Germania nel genocidio degli armeni".
Andrea Riccardi
Nei ghetti ebraici dell’Europa orientale, dove i nazisti ammassavano gli ebrei in attesa della «soluzione finale», c’era un libro popolare: I quaranta giorni del Mussa Dagh di Franz Werfel. Un romanzo, edito alla fine del 1933, sulla resistenza armena agli ottomani. Pochi mesi dopo fu vietato nel Reich, mentre ebbe un enorme successo nel resto d’Europa e negli Stati Uniti. Un’impiegata della biblioteca del ghetto di Vilnius, in Lituania, ricordava parecchi ebrei «in lista d’attesa per quel libro». C’era una percezione profonda del legame tra i due genocidi della prima metà del Novecento. Ma esiste tale legame? Quale il ruolo dei tedeschi, alleati della Sublime Porta, nella strage degli armeni durante la Prima guerra?
La copertina (Guerini e associati ed.)
La storiografia armena ha rilevato la presenza tedesca, ma si è concentrata soprattutto nel narrare e dimostrare la strage. Si cita spesso la risposta di Hitler ai capi militari preoccupati delle sue raccomandazioni alla brutalità in guerra: «Chi si ricorda più oggi della strage degli armeni?». La frase, non del tutto provata, è stata utilizzata per stabilire un legame tra il dramma degli armeni e quello degli ebrei, ma anche per ammonire sui rischi della dimenticanza. Ma c’è ben di più. Lo storico tedesco, Stefan Ihrig, in Giustificare il Genocidio. La Germania, gli Armeni e gli Ebrei da Bismarck a Hitler, pubblicato da Guerini e associati, documenta i fili complessi che legano il genocidio armeno alla coscienza e alla politica tedesca. Niente è semplice in questa storia, se non il fatto che, in Germania, alleata della Sublime Porta, si guardò agli interessi tedeschi verso Costantinopoli, piuttosto che ascoltare gli allarmi sulla politica genocidaria provenienti da missionari, viaggiatori, (alcuni) diplomatici tedeschi. Il cancelliere Bismarck fin dal 1880 annotava con cinismo su un rapporto che denunciava come gli armeni morivano di fame: «Abbiamo già abbastanza poveri che versano in condizioni miserabili in patria». I tedeschi sapevano perfettamente quello che accadeva agli armeni e ai cristiani non armeni (come siriaci, caldei, assiri) nell’impero in guerra. Nel 1915, Talât pascià, leader giovane turco e un triumviro dell’impero, dichiarò a un diplomatico di Berlino: «Le intenzioni del governo che stava utilizzando la guerra per fare tabula rasa dei suoi nemici interni — gli indigeni cristiani di tutte le confessioni — senza essere ostacolato dall’intervento diplomatico degli altri Paesi». La scelta tedesca non era però solo politica, ma anche frutto di «antiarmenismo»: gli armeni erano considerati «gli ebrei d’Oriente», accusati di essere dediti all’usura e allo sfruttamento delle classi inferiori. C’è un odio razziale, che talvolta non risparmia anche i greci e che corre parallelo all’antisemitismo. Gli armeni erano visti in una prospettiva razziale o etnica. Poco o niente vale che fossero cristiani. Fatto rivelatore della limitata e provinciale coscienza del cristianesimo. Invece le opinioni pubbliche di Francia, Gran Bretagna (che avevano avuto ambiguità nell’«uso» politico dei cristiani), quella italiana e americana si accendevano in difesa degli armeni. La Santa Sede di Benedetto XV si muoveva presso il sultano in difesa degli armeni. Questi non erano sentiti come cristiani da tante istanze protestanti tedesche, mentre i cattolici di Germania non brillavano nella consapevolezza del dramma «cristiano». Nota Ihrig: «La mancanza di una risposta decisa da parte della Germania cristiana dev’essere parsa a Hitler particolarmente significativa: se quella era stata la reazione allo sterminio di una nazione cristiana, chi mai si sarebbe espresso contro l’uccisione degli ebrei?». L’osservazione va generalizzata non solo alle comunità cristiane, ma anche a parte significativa della società tedesca. Il libro di Ihrig è una ricerca ponderosa e affascinante che, in quindici capitoli, ricostruisce il dramma armeno in Anatolia, avvenuto sotto gli occhi dei tedeschi, giungendo sino ai nazisti. Adolf Hitler, ammiratore di Kemal Atatürk, concede che il corpo di Talât pascià, ucciso in Germania, sia trasferito e solennemente inumato a Istanbul. Il leader «giovane turco», rifugiato a Berlino dopo la sconfitta ottomana, era stato ucciso nel 1921 da un armeno, Soghomon Tehilirian, che considerava l’uccisione come l’applicazione di una sentenza di morte. Significativamente il tribunale tedesco non riconobbe colpevole l’armeno. Ma il processo, in cui ci furono varie narrazioni dei massacri da parte di testimoni, fu un momento di presa di coscienza del dramma armeno da parte dell’opinione tedesca. Il libro di Ihrig ripercorre drammatiche vicende e processi culturali di una Germania che, nonostante la sua grande tradizione culturale, fa emergere una posizione razzista verso un popolo con cui aveva peraltro scarsa comunanza, trascura le sue sofferenze e il suo essere cristiano. Prevale la scelta politica del Reich che orienta società, opinioni e visioni. Hitler conosceva bene la vicenda armena: forse — nota l’autore — aveva coscienza di come gli attori delle stragi l’avessero fatta franca, anche per il contesto di guerra mondiale. Era peraltro chiaro il nesso tra genocidio e guerra mondiale. Raphael Lemkin, padre del termine «genocidio», che si era interessato della strage degli armeni, nel 1944, scrive nelle Memorie: «La sovranità… non poteva essere concepita come il diritto di uccidere milioni di innocenti».
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