La Russia ha ancora paura di Sacharov Analisi di Ezio Mauro
Testata: La Repubblica Data: 04 settembre 2023 Pagina: 25 Autore: Ezio Mauro Titolo: «La Russia ha ancora paura di Sacharov»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 04/09/2023, a pag.25 con il titolo 'La Russia ha ancora paura di Sacharov' l'analisi di Ezio Mauro.
Ezio Mauro
Eppure lo avevano baciato – sulla bocca, alla sovietica, coi tre abbracci di rito – alzandosi in piedi davanti a tutto il Politbjuro: prima Nikita Krusciov, segretario del Pcus e Capo del governo, subito dopo Leonid Breznev, il suo vice. Applausi nella sala dei banchetti al Cremlino, dove il Praesidium del Soviet Supremo dell’Urss aveva appena conferito la terza medaglia di Eroe del lavoro socialista ad Andrej Sacharov, dopo l’Ordine di Lenin «per i servizi eccezionali allo Stato nell’adempimento di un compito speciale del governo». Lui aveva quarant’anni in quel 1961 sovietico, una laurea in fisica, studi d’avanguardia su entropia, cosmologia e asimmetria tra materia e antimateria, e il suo “compito speciale” misterioso era la bomba atomica dell’Urss di cui era il genitore: senza poterne mai parlare nemmeno a suo padre, per il segreto di Stato che circondava l’“impianto” dove si presentava al lavoro ogni mattina, accompagnato sulla Ciajka nera dell’Accademia delle Scienze. Solo la fisica in testa, il concetto di supersimmetria, la teoria delle stringhe, il modello di universo a foglie multiple. Poi, un lampo, con una luce diversa: quando il Cremlino decide di infrangere la moratoria dei test termonucleari e Sacharov è richiamato dalla vacanza in Crimea per occuparsene, decide di consegnare a Krusciov durante un incontro con gli scienziati un biglietto in cui contesta la ripresa degli esperimenti della bomba «perché possono compromettere il disarmo e il dialogo per la pace». Non ha la minima idea di dove lo porterà quel biglietto che il Gensek, il Segretario generale, si è messo in tasca, ma il potere capisce subito l’eresia del gesto, quando Krusciov comincia a parlare fissandolo: «Voi vi impicciate di cose che non vi riguardano, Andrej Dmitrievic, si può essere buoni scienziati e non capire nulla di politica. Avanti, un brindisi ai nostri futuri successi». Nessuno guarda Sacharov, di colpo isolato, tutti brindano senza vino: a Krusciov i medici consentivano solo l’ acqua minerale. Sessant’anni dopo il mondo sembra aver fatto un giro completo, è finita l’Urss, è caduto il Muro, è scomparso il Pcus, non c’è più il drappo rosso sulla cupola del Cremlino. Ma Mosca prova a cancellare il nome di Sacharov, morto nel 1989 dopo aver ricevuto il premio Nobel per la Pace nel ’75, un nome che concentra in sé l’intera storia del dissenso sovietico, la lotta per la difesa dei diritti umani, la denuncia dell’arbitrio violento del potere. Storie di uomini e donne che hanno conosciuto il lager dopo la chiusura del gulag, brandelli di vita perseguitati, esistenze deformate e umiliate. Dal 1996 il Centro Sacharov, il Museo col suo nome, l’associazione Memorial di cui era il riferimento, hanno raccolto e testimoniato questa realtà di abusi di Stato e soprusi politici del comunismo sovietico, inventariando 600 campi di concentramento, classificando una popolazione di tre milioni e mezzo di cittadini colpiti dalla repressione, aggiungendo nomi e cognomi agli 800 mila fucilati nell’epoca del terrore, e al milione e mezzo costretto ai lavoriforzati. Adesso devono chiudere, l’ordine è quello di sgomberare, in esecuzione della legge contro gli “agenti stranieri”, l’etichetta appiccicata ai circoli del vecchio e nuovo dissenso per consentire mano libera alla polizia segreta. Sacharov è l’inizio e la fine di quel mondo sommerso che si vuole estinguere. Sigillando il suo lascito, il Cremlino mostra una sua pervertita coerenza, perché nel Paese su cui Putin ha issato la bandiera nera del dispotismo non può esserci spazio di sopravvivenza per la coscienza civile inquieta di Andrej Sacharov. Aveva incontrato il dissenso, timido e anonimo, il 4 dicembre del 1966 nella buca delle lettere di casa, dove qualcuno aveva infilato una busta bianca senza nome e senza indirizzo. Dentro due fogli sottili di carta da sigarette, con l’appello ai cittadini del matematico Alek Vol’pin a riunirsi il giorno dopo (festa della Costituzione) in piazza Pushkin per chiedere il rispetto della legge suprema, a cominciare dalla trasparenza del processo ai due scrittori Andrej Siniavskij e Julij Daniel, che cominciava proprio in quei giorni. Sacharov decide di esserci. Sbarca in taxi sull’isola del dissenso, in mezzo a 200 persone tra cui molti agenti del Kgb, e mentre scende il buio alle 6 in punto tutti si tolgono il cappello, in silenzio per un minuto. Quei sessanta secondi costeranno il manicomio per i tre organizzatori, Julia Vishneskaja di 16 anni, Leonid Gubanov di 19, Vladimir Bukovskij di 24. Sacharov esce dall’anonimato confortevole dell’Accademia facendo tre passi verso il monumento a Pushkin, e legge a voce alta l’iscrizione sulla base: «in dura età conobbi gli accenti di libertà/ e per i caduti la grazia domandai ». Sembravano versi scritti per lui, che senza saperlo aveva visto nascere insieme l’embrione della dissidenza e la rivendicazione della glasnost, la trasparenza. Una pellicola a raggi infrarossi lo filma nell’oscurità, consegnandolo alla memoria perenne del Kgb, e alla sua sorveglianza. Il primo ordine di attivare l’intercettazione nelle stanze di casa sua è del 1970. Ma già prima è pedinato, piantonato, uscendo in strada ritrova ogni volta gli agenti di guardia, li saluta: «Ecco i nostri». Scrive Considerazioni sul progresso , dove sostiene la convivenza pacifica e la libertà intellettuale, e Mikhail Suslov, il custode dell’ortodossia comunista, gli fa sapere che «non è opportuno» pubblicarlo: inizia il corpo a corpo col potere, che comincia a fargli il vuoto intorno. Ha portato i primi capitoli scritti a mano alla sua segretaria perché li battesse a macchina, ma quando si presenta a casa con il quarto capitolo lei sussurra che non può più continuare quel lavoro, ha ricevuto visite, lui deve capire. Quando ilNew York Timespubblica brani del libro, i superiori gli consigliano di non presentarsi più all’“impianto”, per evitare «provocazioni e attacchi ». Deve rimanere a Mosca, è rimosso dall’incarico, ha perso il lavoro, è quasi al bando. Come scriveva Anna Achmatova, la sua vita è ormai “deviata”, al pari di un fiume. L’8 marzo del 1969, a segnare la frattura tra il prima e il dopo, muore Klavdia, la sua “Klava”, la prima moglie. Due anni dopo una telefonata per gli auguri il 31 dicembre lo avvicinerà a Elena Bonner, la “Ljusja” compagna appassionata di tutte le sue avventure: racconteranno la fatica di esprimere i loro sentimenti per mesi, fino al 24 agosto, quando lui si dichiara. Si sposano nel gennaio del ’72, condividendo ogni scelta, tutte le disgrazie, qualsiasi ribellione. D’altra parte si erano conosciuti quando lei lo cercò per fargli firmare unappello in favore di Angela Davis e del cosiddetto gruppo di Leningrado: da quel momento tutte le dissidenze, con tutte le denunce e tutte le ingiustizie e gli abusi portano a Sacharov, si accumulano sulle scale di casa sua, nel pianerottolo, nello studio. Lui diventa il rappresentante di chi chiede rispetto per i suoi diritti, e non accetta che la dignità, prima ancora che la libertà, venga calpestata. Tutti lo cercano: Heinrich Böll lo conosce d’estate nella dacia del pittore Boris Berger, e dopo averlo ascoltato gli dice: «Vivere da noi è difficile, da voi è impossibile ». Incontra Solgenitzin, annota nel diario la stima per l’uomo e lo scrittore, ma anche la distanza da quella spiritualità messianica come destino della Russia, a differenza della sua convinzione che i diritti sono la vera conquista capace di aprire il sistema. Scrive a Jurij Andropov, presidente del Kgb, denunciando le condizioni dei detenuti nei lager, risponde a Larisa Bogoraz, la moglie di Daniel, facendo sua la causa dello scrittore, appoggia la protesta in carcere di Tolja Marcenko. E quando il presidente americano Nixon arriva a Mosca in visita di Stato il volto di Sacharov rimbalza in tutte le televisioni americane, perché il leader del dissenso ha deciso uno sciopero della fame in favore dei prigionieri Pljusc, Bukovski, Moroz e Ogurcov. La situazione precipita. Nel villaggio accademico delle vacanze in Crimea nessuno parla coi Sacharov, se si avvicinano la conversazione finisce. A casa, il telefono è bloccato per le chiamate all’estero. Arrivano lettere in buste manomesse, dove qualcuno infila fotografie di teschi e pugnali come minaccia, a Natale giungono come augurio ritagli di giornale su incidenti stradali, nelle riviste scientifiche spedite in abbonamento ci sono tra i fogli biglietti di accusa e di insulti, quando Elena sale sul treno i passeggeri non vogliono viaggiare con lei e deve cambiare vagone. Finché il 9 ottobre a Sacharov viene assegnato il premio Nobel per la Pace. Elena Bonner è a Siena, appena operata agli occhi, vede il marito in televisione che ringrazia e spiega: «È un grande onore per me e per tutto il movimento in difesa dei diritti dell’uomo. Lo condivido con i prigionieri di coscienza che hanno sacrificato il bene più prezioso, la libertà, alla causa dei diritti universali». Gli impediscono di andare a Oslo per ricevere il premio, perché è a conoscenza di segreti di Stato. Andrà Elena per lui, che a Mosca riceve il dileggio e le ingiurie dell’Accademia e dei giornali: attaccano la sua “vita ultramondana”, la scelta di compensare con il tema dei diritti «la progressiva impotenza scientifica», la decisione di non rifiutare il premio, «un’elemosina che corrisponde ai trenta denari dell’antica Giudea». Si può solo andare avanti. E infatti il giorno della consegna del premio Sacharov è a Vilnius per presenziare al processo contro Sergej Kovalev. Ormai ha trasformato la sua solitudine e la sua debolezza fisica in una bandiera che sventola sul mondo e che il potere non può ammainare. Quando arriva l’invasione sovietica dell’Afghanistan, nel dicembre ’79, è la svolta. Sacharov parla ai giornali occidentali: «Penso che vadano sospese le Olimpiadi di Mosca, perché i Giochi non si possono svolgere in un Paese in guerra. E credo che l’Urss debba ritirare le sue truppe dall’Afghanistan, ponendo fine a un’invasione che è stato uno degli errori più gravi che i nostri dirigenti abbiano mai fatto, minando la credibilità del nostro Stato, rivelando con chiarezza il pericolo che una società totalitaria chiusa rappresenta per il mondo intero». Parole che sembrano scritte per oggi, ma che allora trasformano Sacharov in nemico ufficiale. Martedì 22 gennaio 1980 sta andando allo spaccio dell’Accademia con la borsa della spesa e un recipiente di vetro per la panna acida, quando sul ponte Krasnocholmskij la polizia stradale lo blocca, due agenti salgono sulla sua auto, mostrano la tessera del Kgb, lo portano in via Pushkin 15, alla Procura, dove gli notificano che «in relazione alle sue sistematiche azioni infamanti il Soviet Supremo ha deciso di privare Andrej Dmitrievic Sacharov del titolo di Eroe del lavoro socialista ». La firma è di Breznev, seguita da due righe: «si prega di relegare Sacharov in un luogo dove non gli sia possibile avere rapporti con cittadini stranieri». Il “luogo” è la città chiusa di Gor’kij: bisogna partire subito, senza passare da casa. Un’auto del Kgb preleva Elena Bonner con un fagotto di fortuna, e li porta sull’aereo per il confino. Sono sette anni cancellati nella separazione dal mondo, con cui tiene i contatti solo Elena che ogni due mesi passa una settimana a Mosca, parla con gli amici, incontra i corrispondenti dei giornali occidentali, diffonde le dichiarazioni di Andrej Dmitrievic. A Gor’kij non c’è solo isolamento, ma ostilità. Gomme dell’auto tagliate, accuse e insulti alla coppia nei negozi, l’inquilina in coabitazione che tiene spalancata la finestra per far entrare il Kgb a rovistare tra le carte, visite mediche ordinate dalla dottoressa Obuchova e filmate con una telecamera nascosta. «Non ho bisogno di medicine come queste», scrive Sacharov all’ospedale quando scopre l’abuso. «Mi spiace per lei, ma non ho mai contato sulla sua gratitudine», risponde imperturbabile la professoressa. Intanto la perestrojka di Mikhail Gorbaciov sta scavando confusamente come una talpa nel sistema sovietico, senza sapere dove arriverà. Il 15 dicembre ’86 due elettricisti scortati da un agente del Kgb suonano alle dieci di sera al campanello del fisico e spiegano che devono installare il telefono. Che squilla alle 3 del pomeriggio del giorno dopo: è una chiamata dal Cremlino, Gorbaciov annuncia a Sacharov che è liberato dal confino, può tornare a Mosca con la moglie. Lui ringrazia, ma chiede al Segretario Generale di liberare tutti i prigionieri politici. La battaglia continua in Parlamento, dove Andrej Dmitrievic viene eletto deputato, e soprattutto nel vecchio appartamento sul Kolzò dove noi corrispondenti venivamo ricevuti con pazienza a qualunque ora per interrogare la coscienza civile dell’Urss. Fino al dicembre ’89, quando Elena Bonner vide che il marito non tornava dallo studio al piano sotto l’appartamento 61 dove vivevano e scese a chiamarlo. Due ore dopo, ancora coi pantaloni azzurri del pigiama invernale, una felpa blu, i capelli grigi raccolti con l’elastico e il volto stralunato lei indicava con la mano il punto in cui l’aveva trovato a terra: tra due scaffali d’archivio con un cassetto spalancato, mezzo corpo dentro lo sgabuzzino con la nuova Costituzione nella stampante e le gambe fuori, ancora con le pantofole nei piedi, le chiavi in mano. Era morto, ma il vicino Andrej Ptiushkin ha continuato col massaggio cardiaco finché non sono arrivati i medici, perché Elena insisteva, teneva la testa di Andrej tra le mani e non smetteva di parlargli. Poi, finché il lutto è ancora privato, Elena entra nella stanza con un letto singolo dove Sacharov è coperto da un lenzuolo fino al mento, la testa fasciata da un fazzoletto annodato, il volto di sempre, ma senza occhiali. Porta una sedia vicino al cuscino, volta la schiena a chi arriva, perché la città ha saputo e si è messa in cammino: è disorientata e silenziosa, lei che sembrava fatta col fil di ferro. Ma quando il presidente della Camera Primakov propone funerali di Stato e sepoltura a Novadievici dove c’è Kruscev, lei dice no. La salma passerà dall’Accademia, per l’omaggio alle scienze, ma poi la folla la troverà al parco Luzhniki, sede dei grandi raduni dell’opposizione. All’Accademia arriva Gorbaciov con mezzo Politbjuro, e il potere si inchina al contropotere; al parco c’è una coda di chilometri per questi funerali tra popolo e Stato, tra opposizione e consacrazione, in linea con la frase di Lermontov che Sacharov citava a memoria: «Amo la patria, ma di uno strano amore». Poi la bara scende in una fossa fasciata da rami di pino e scavata tra due alberi, come la tomba di Pasternak. Quando la piccola nipote getta la prima manciata di terra e neve, il vecchio fratello porta un fiore e Elena accende il lumino nel cimitero Vostriakovskoye, resta solo la frase che Andrej Sacharov scriveva ogni anno sul telegramma per i suoi nipoti: «Siamo rimasti quelli di sempre». Anche la Russia.
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