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La Repubblica Rassegna Stampa
26.08.2023 Trump tutto in una foto
Analisi di Gabriele Romagnoli

Testata: La Repubblica
Data: 26 agosto 2023
Pagina: 15
Autore: Gabriele Romagnoli
Titolo: «Con me o contro di me, lo sguardo che annuncia la sfida finale del tycoon»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 26/08/2023, a pag.15, con il titolo “Con me o contro di me, lo sguardo che annuncia la sfida finale del tycoon”, l'analisi di Gabriele Romagnoli.

https://www.ilpost.it/wp-content/uploads/2023/08/25/1692942569-foto-arresto-trump.jpg?x61519
La foto segnaletica di Donald Trump

Non è una fotografia, è un piano di battaglia. Non è storica, è programmatica. Segnaletica, certo: di un’intenzione. E non ritrae tanto un ex presidente degli Stati Uniti d’America, quanto un candidato alla rielezione per quella carica. Donald Trump non ha lasciato niente al caso. Anni di televisione gli hanno insegnato la scelta di tempo e modo. Una frazione di secondo, ma lui ci è arrivato pronto, consegnando la visione di sé che desiderava. Adesso sta all’America decidere se vuole che quella sia la sua foto sul passaporto, l’idea di sé da mandare nel mondo; se vuole ancora e nonostante tutto quell’uomo, quel muro alle sue spalle, le implicazioni e il destino che lui sembra scorgere oltre l’obiettivo. Niente al caso, dunque. Se c’è una cosa che Donald Trump ha imparato a curare è l’apparenza. Ha presto capito che era, di tutti i linguaggi, il più potente e diretto, soprattutto volendosi rivolgere a quella parte di America che non si perde nei giri di parole. Uno slogan (Make America Great Again) e una faccia, la sua (Like me: come me o anche, amatemi). Sfogliare l’album di Trump significa assistere alla costruzione di un’immagine. Facendolo alla velocità che produce una sensazione cinematografica si vedrebbe un uomo che passa dal sorriso al cruccio, alla sfida finale. Quando, nel 1995, quotò a Wall Street le sue imprese si mostrò a braccia conserte sulla cravatta rossa (ma l’abito era grigio, la camicia azzurra, non era ancora vestito da bandiera) ed esibì un sorriso tirato. Esprimeva la classica fiducia del magnate americano. Poteva essere, e per qualche anno sarebbe stato, un politico qualsiasi: ondivago, confuso, spacciatore di banalità. La trasformazione dell’espressione avvenne nel 2004, sui cartelloni e davanti alle telecamere. Trump conduceva il programma The apprentice . Rese celebre la frase: “You’re fired”, sei licenziato, e aquella adeguò la mimica. Strinse gli occhi, serrò le labbra, piegò leggermente in avanti la testa. Ma aveva vent’anni di meno, un avvenire imprevedibile ed era, perfino, democratico. Lì Trump capì di poter parlare senza nulla dire, di poter trasmettere senza nulla fare. Il suo volto divenne il suo messaggio. Dopo l’insediamento posò (secondo lui) “alla Churchill”. Da tempo è in lotta con Fox ,una volta la sua rete, perché ritiene “poco lusinghiere” le sue immagini mandate in onda. E arriviamo alla serata di giovedì. Per giorni ha cercato di evitare la foto segnaletica. O meglio, ha fatto credere di volerla evitare. Un’umiliazione indegna di un ex presidente. Eppure, in un modo perverso, un manifesto elettorale per un candidato alla presidenza. Tutti gli altri coimputati nell’inchiesta condotta in Georgia per il tentativo di sovvertire l’esito elettorale del 2020 (vittoria di Biden) avevano acconsentito. Ne era uscita una sequenza di espressioni tra l’impaccio e lo scherno. Trump ha alimentato la suspense per questoscatto definito “epocale” prima ancora di essere visto. Ha finto che sottomettersi alla richiesta (prevista da una legge del Paese che ha guidato e ancora vorrebbe guidare) fosse una concessione allo sceriffo e alla sua intransigenza. Gli ha lasciato l’indicazione del luogo tenendosi quella dell’ora del duello: il prime time televisivo. È andato, come si va in strada davanti al saloon: una frazione di secondo per sfoderare il messaggio sul viso e spararlo. Da tempo circolava una finta foto segnaletica, stampata su migliaia di magliette sotto la scritta Not Guilty (non colpevole). Niente in confronto all’originale. Trump è lo Springsteen della comunicazione: dal vivo rende molto più che in studio. L’ex presidente francese Sarkozy mantenne un’espressione grave durante le traversie giudiziarie, l’ex premier italiano Berlusconi non spense mai il sorriso che metteva su tutto, ma Trump? Eccolo in quella che i massmediologi hanno già definito “una icona del tempo in cui abbiamo vissuto” e forse di quello in cui vivremo. L’impressione è che abbia scelto anche la luce: livida, drammatica. Il viso è tagliato a metà da un inizio di ombra, i capelli color princisbecco sono illuminati come una superficie placcata, la testa è inclinata in avanti come quella di un toro pronto a caricare, le sopracciglia sono inarcate (come accade a chi è concentrato su un pensiero), lo sguardo è diretto all’obiettivo. E oltre. Guarda in camera, guarda avanti. Qualcuno in America ha commentato che questa immagine fa scivolare via da lui il potere, ma è un errore di prospettiva: è soltanto il contesto, che lui ripudia. Trump sta fissando l’orizzonte e ci vede la sua vendetta, una vendetta privata in luogo pubblico. È così concentrato, catalizzante, fuori luogo da indurci nella trappola di notare l’uomo e non la situazione, di perderci nel gorgo del presente e dimenticare, colpevolmente, il recente passato che lo ha determinato e l’imminente futuro che potrebbe conseguirne.

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