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Informazione Corretta Rassegna Stampa
08.08.2023 Perché non si può parlare di un conflitto
Analisi di David Elber

Testata: Informazione Corretta
Data: 08 agosto 2023
Pagina: 1
Autore: David Elber
Titolo: «Perché non si può parlare di un conflitto»
Perché non si può parlare di un conflitto
Analisi di David Elber

Fin dalla nascita dello Stato di Israele, nel 1948, la volontà araba di “distruggere” il nascente Stato del popolo ebraico è stata catalogata come “conflitto”. Successivamente, a partire dalla fine degli anni Settanta, l’espressione “conflitto arabo-israeliano” è stata sostituita sempre più di sovente dall’espressione “conflitto israelo-palestinese”.

Mostreremo qui perché il termine “conflitto” non è corretto ma è opportuno, invece, parlare di “aggressione araba” o del “tentativo di distruzione di Israele da parte degli arabi”.

Conflitto israelo-palestinese. Opinioni a confronto - Storia in Podcast di  Focus.it

Se si analizzano le guerre che hanno contrapposto nel corso dei secoli, ad esempio, la Francia alla Gran Bretagna o alla Germania, si hanno dei classici esempi di “conflitti”. In questi casi la contesa, tra gli Stati o i regni, era relativa a dispute territoriali o a conflitti relativi alla supremazia politica, economica o commerciale sul continente europeo o a livello mondiale. Alcune di queste guerre sono stata particolarmente feroci (Prima e Seconda guerra mondiale) ma nessuna di esse aveva per scopo “l’annientamento totale” dell’avversario. In pratica quando gli avversari si sono dichiarati guerra lo hanno fatto per sancire la propria supremazia ma mai con l’idea che l’avversario di turno “non avesse legittimità di esistere”.

Se prendiamo come esempio le guerre napoleoniche, la guerra franco-prussiana o la Prima guerra mondiale, vediamo che la contesa era per un territorio o per la supremazia geo-politica tra gli Stati ma mai nessuno di essi ha messo in dubbio la legittima esistenza dello Stato, o degli Stati avversari; e questo ha condotto alla possibilità di arrivare alla pace, che ha retto per periodi più o meno lunghi. Ben diversa è l’origine del “conflitto” tra Stati arabi ed Israele. In questo caso la “disputa” è l’esistenza stessa di Israele giudicata dagli arabi come “illegale”, come una “ingiustizia” da mondare con la guerra. Questo fa capire perché a distanza di 75 anni la situazione non sia sostanzialmente mutata e si possa parlare solamente di “tregue” e non di pace vera e propria anche con gli Stati arabi che hanno, formalmente, firmato dei trattati di pace con lo Stato ebraico. Su questo punto torneremo in seguito.
Per questa ragione il termine corretto, anzi, l’unico termine corretto per descrivere la contrapposizione araba nei confronti di Israele è “guerra d’aggressione araba”. In questo caso, infatti, non è in gioco una disputa territoriale o la supremazia politica, economica o commerciale in Medio Oriente ma l’esistenza stessa di Israele. Solo quando, Israele, cesserà di esistere per gli arabi potrà esserci “la pace”.

L’unico esempio similare che si è verificato in Europa nel corso dei secoli è stato il “conflitto” tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica. Anche in questo caso non si può parlare di conflitto ma di “aggressione nazista” all’Unione Sovietica. Quella scatenata dai nazisti nel 1941 fu un’aggressione che non contemplava un possibile “aggiustamento” dei confini o delle sfere di influenza ma fu una guerra finalizzata all’annientamento dell’avversario. Così fu concepita fin dall’inizio e portata avanti con brutalità sul campo di battaglia, perché i tedeschi non conferivano legittimità alcuna all’avversario russo e per questo motivo tutto diventava lecito pur di annientare il nemico. La pace si ottenne unicamente perché il regime nazista venne “annientato”.
Gli stessi tedeschi ebbero un atteggiamento ben diverso nei confronti dei francesi, degli inglesi, degli olandesi o dei danesi, nei confronti dei quali, pur utilizzando metodi di guerra brutali non ne misero mai in discussione il diritto esistenziale. Anche quando ne occuparono i paesi non compirono mai le efferatezze compiute sul “fronte orientale”.

L’atteggiamento arabo nei confronti di Israele, anzi, nei confronti del desiderio di autodeterminazione del popolo ebraico è stato, fin dal principio, di natura ben precisa. Fin dagli anni Venti, quando la Società delle Nazioni riconobbe come legittimo il desiderio di autodeterminazione del popolo ebraico, gli arabi vi si opposero sempre con il medesimo principio: “gli ebrei non hanno diritto ad un lo Stato nazionale”. Esso è il motivo per il quale tutte le proposte fatte dai britannici negli anni Trenta furono rigettate, così come la proposta fatta dall’ONU nel 1947. Per gli arabi non c’era spazio per uno Stato ebraico per quanto piccolo fosse. Il “conflitto” si è sempre caratterizzato come un’aggressione volta all’annientamento totale dell’avversario.

Prendiamo ad esempio le parole utilizzate dal Segretario Generale della Lega araba, Abdul Rahman Hassan Azzam, quando, alla vigilia della nascita di Israele proclamò: «Questa guerra sarà una guerra di sterminio e in futuro si parlerà di un massacro come quelli operati dai mongoli e dai crociati». L’eloquenza di queste parole è inequivocabile, non si trattava di una “disputa territoriale”, perché Israele era giudicato troppo esteso, ma si trattava di “pulire” con il sangue “un’ingiustizia” che non si doveva realizzare. Israele riuscì a sopravvivere all’aggressione araba ma ad un costo altissimo di vite umane. Anche il territorio fu decurtato con la perdita della Giudea, della Samaria e della Striscia di Gaza. In questi territori gli ebrei furono vittime di uccisioni e di pulizia etnica. Le sinagoghe e i cimiteri ebraici furono rasi al suolo perché nulla doveva ricordare la presenza ebraica. Non fu un “conflitto” ma volontà di annichilimento dell’avversario.

Un altro esempio ce lo danno le parole di Nasser alla vigilia della guerra dei Sei giorni del 1967. Nasser era considerato, nel mondo arabo, il leader più carismatico e potente. In molte trasmissioni radiofoniche e sui giornali egiziani, descrisse l’imminente volontà di attaccare Israele come «una guerra di annichilimento» nella quale i «superstiti ebrei saranno gettati in mare». Anche in questo caso non era in discussione il confine di Israele ma l’esistenza stessa dello Stato ebraico e la sua legittimità ad esistere. Fondamentalmente questo atteggiamento non si è mai modificato neanche dopo la firma dei trattati di pace con l’Egitto (1978) e con la Giordania (1994). Infatti, alla formalizzazione dei trattati di pace non è seguita “la pace”. In pratica non esistono scambi culturali, commerciali tra i due Stati arabi e Israele. In tutte le scuole di ogni ordine e grado, di questi paesi arabi, Israele è descritto come “il nemico” e la loro cultura è ancora profondamente antisemita. Così come è palese l’ostilità di questi paesi in tutti i forum internazionali a iniziare dall’ONU. Poco diversa è la situazione nei paesi che hanno firmato gli Accordi di Abramo: recenti sondaggi hanno mostrato, in modo inequivocabile, che una ampia maggioranza della popolazione araba è completamente ostile a Israele. Se questa si può definire “pace” bisogna allora ridefinire il concetto stesso di pace.

Veniamo alla leadership palestinese. Anche per essa vale quanto detto fino ad ora per i paesi arabi, ma con una peculiarità: è l’unica leadership araba che ha sempre anteposto la distruzione di Israele alla creazione di un proprio Stato nazionale. In pratica, da quando si può parlare di “identità palestinese”, cioè dagli anni Sessanta dello scorso secolo, la priorità è sempre stata la distruzione di Israele e mai la creazione di un proprio Stato. Questo lo si evince chiaramente leggendo il primo Statuto nazionale della Palestina, quello del 1964 nel quale si leggono numerosi articoli che evocano la “liberazione della Palestina” ma contestualmente «si rinuncia alla sovranità territoriale della West Bank e della Striscia di Gaza» (Articolo 24). Davvero un fatto curioso visto che quei territori erano già “in mano araba” quindi i primi a poter diventare uno Stato palestinese, ma evidentemente quello non ne era lo scopo.

Sulla distruzione dello Stato di Israele non mancano i riferimenti né nello Statuto dell’OLP e né in quello di Fatah. Anzi, lo Stato di Israele, in quest’ultimo, diventa “l’entità sionista” da “eradicare con la violenza” (Articolo 12). Definizione fino ad oggi mai ufficialmente emendata. La volontà di distruggere Israele è esplicita anche nello Statuto dell’organizzazione terroristica Hamas. Quindi si può ben comprendere che non si può parlare, neanche in questo caso, di “conflitto” perché è l’esistenza stessa di Israele che non è riconosciuta né politicamente dall’Autorità Palestinese né culturalmente nelle scuole di tutti i gradi, dove, nei testi scolastici, Israele scompare, e si rivendica la “Palestina dal fiume al mare” e dove abbondano gli stereotipi antisemiti di nuova e antica data. Tutto ciò è sufficiente a spiegare bene 30 anni di fallimenti degli Accordi di Oslo.

Come si può trovare un compromesso in un “conflitto” con qualcuno che non riconosce all’avversario il suo diritto esistenziale?

David Elber - Progetto Dreyfus Archivio | Progetto Dreyfus
David Elber

takinut3@gmail.com

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