«Come ho fatto a cacciarmi in questa situazione? Si chiese. Si ricordò del detto yiddish: dieci nemici non possono fare a un uomo il male che può fare a se stesso». È con un tono avvilito che Max, detto Mottele il Bastardo, rimbrotta se stesso, in uno dei fulminanti monologhi a cui da sempre ci ha abituato Isaac Bashevis Singer, con i suoi eroi sempre attorcigliati in situazioni impossibili da cui non sanno più come uscire. A un secolo dalla nascita di Isaac Bashevis Singer (la data è incerta e oscilla tra il 1902-1903-1904), la casa editrice Adelphi manda oggi alle stampe un terzo inedito mai pubblicato finora in volume, Max e Flora, mirabilmente tradotto e curato da Elisabetta Zevi con un duplice sforzo di traduzione sia dall’originale in yiddish – apparso sul giornale Forwerts a puntate nel 1972 -, sia dalla versione inglese ad opera dello stesso Singer, un dattiloscritto dove compaiono numerose annotazioni a penna, di suo pugno, («il mio secondo originale», diceva delle sue auto-traduzioni, spesso delle vere e proprie riscritture). Il titolo originale di Max e Flora è Di Gest, Gli ospiti, I Visitatori, e rimanda alla condizione dei due protagonisti, la coppia di coniugi Max e Flora che, avendo fatto fortuna a Buenos Aires con traffici illeciti e poco kasher (una catena di bordelli mascherati da fabbrica di borsette), tornano in visita a Varsavia per ritrovare i luoghi della giovinezza, gli amici di un tempo, il loro mondo di ieri. Siamo nel 1910, alla vigilia della Grande Guerra e della Rivoluzione russa. Il milieu è quello della malavita ebraica del ghetto e, come sempre in Singer (premio Nobel 1978), tutto ruota intorno a via Krochmalna, cuore affettivo e sentimentale dell’universo letterario di Singer («la miniera d’oro della mia immaginazione», dirà). Imbroglioni di piccolo cabotaggio, intellettuali debosciati e senza nerbo, attori di teatro abitati da un cinismo senza pari; e poi giovani ragazze anarchiche nate in timorate famiglie ebraiche che non vedono l’ora di lanciare bombe e immolarsi per nobili cause; mature maitresse ancora piacenti tallonate dal loro incipiente sfiorire; ruffiani senza scrupoli e trafficanti di esseri umani che cercano di redimersi con opere di bene, facendo tzedakà alle sinagoghe e donazioni a yeshivot. Eroi che inciampano nella loro malvagità e si auto assolvono, luftmensch che compiono il Male ma pensano di redimersi votandosi alla preghiera. Un universo definitivamente inabissatosi con la Shoah. Tutto il romanzo si snoda nel mondo della malavita ebraica, come già in altri due romanzi di Singer, Schiuma (Shoim, da tradursi anche con il termine Feccia), e Keyla la Rossa (Yarme un Keyle ), quasi un trittico dei bassifondi ebraico-varsoviti. Ma attenzione: Singer rispolvera qui un genere letterario ampiamente diffuso nella letteratura yiddish classica e la rilancia ai lettori ashkenaziti americani del 1972. Un pubblico yiddishofono che storcerà il naso e non accetterà di sporcare la memoria di chi, seppur spregevole, è finito nelle camere a gas e nei crematori della Shoah, una yiddishkeit cancellata dal nazismo e oggetto di una struggente nostalgia, di una beatificazione post-mortem, che si tratti di santi, ladri o prostitute. Sarà probabilmente questo uno dei motivi per il quale Singer deciderà di non pubblicare in volume questi romanzi, relegandoli alla sola pubblicazione sul Forwerts e alla forma-feuilleton della yiddishe gangster novel. Un genere letterario di vasto successo, romanzi dei bassifondi, ritratti del sottobosco criminale ebraico a cui molti scrittori in lingua yiddish avevano già dedicato romanzi e racconti. Del resto, la vicenda della tratta delle bianche era ben nota all’epoca, uno spregevole commercio di ragazze ebree raggirate negli shtetl polacchi e gestita da Zwi Migdal, un’organizzazione criminale sconfitta nel 1929 grazie alla coraggiosa Raquel Liberman, ex ragazza perbene traviata da un ruffiano. Un genere letterario dalla solida fortuna, si diceva, a partire dai maestri della letteratura yiddish: scriveranno gangster novel di poderoso successo Mendele Moickher Sforim (L’anello magico, 1865, Fiske lo zoppo 1869), Sholem Aleychem (Moshe il ladro , 1903), Sholem Asch (Motke il ladro , 1916, Dio della vendetta, 1923), Oyzer Varshavski (Contrabbandieri, 1919), Joseph Opatoshu ( Dal ghetto di New York ). Fino ai Racconti di Odessa di Isaak Babel e La famiglia Mashber di Der Nister (entrambi scritti in russo) o al successo planetario di Liliom, di Ferenc Molnar (scritto in ungherese). Ma veniamo al romanzo, un autentico feuilleton pieno di capitomboli e colpi di scena funzionali alla struttura “a puntate”, di riflessioni sul Bene e il Male che sono tra i “marchi di fabbrica” di Singer. Non è forse lo stesso Dio a consentire il male del mondo, come confermano le persecuzioni degli ebrei nei pogrom nella Russia zarista? E se è così, non è dunque un Dio malvagio?, si chiede Max. L’eroe è in preda a un senso di vuoto che lo tallona, è attratto dall’eresia ebraica di Jacob Frank, osserva i discendenti polacchi degli eretici che «s’incontravano negli scantinati per leggere libri proibiti e fare delle orge. A loro modo, anche loro volevano riscattare l’umanità. Chissà, forse avevano ragione…». I temi del romanzo sono quelli cari a Singer: la paura della noia che affligge tutti gli esseri umani e il bisogno di nutrire un eros famelico, perennemente insoddisfatto. Il solito triangolo amoroso con il protagonista maschile al centro in mezzo a tre donne diverse da cui si sente identicamente attratto. E poi la capacità di dipingere l’affresco di una Varsavia brulicante di vita ebraica, ormai cancellata dalla Shoah. I protagonisti avviluppati in una ragnatela infernale da cui non riescono a liberarsi, incerti se volare o precipitare, appesi al desiderio di redenzione e animati da una irresistibile attrazione per l’abisso . L’eros predatorio, la bulimia erotica: anche qui vediamo Max proteso a catturare ogni minima sollecitazione erotica mentre, via via, lo osserviamo sprofondare in un voyeurismo compulsivo e senza pudori (forse tra i più espliciti dei romanzi di Singer), mentre spinge la moglie Flora, – che pure dice di amare alla follia -, tra le braccia del suo ex amante, giusto per stuzzicare il suo appetito fiacco («“E’ venuto per te il momento di avere un altro uomo”, proseguì lui, allarmato e sorpreso dalle sue stesse parole»). E poi la sensazione di essere profondamente scissi, al limite della dissociazione psichica, vitalità e nichilismo, Dio e i demoni… Anche in questo romanzo, il protagonista Max si sente agito dalle circostanze, come se una mano invisibile guidasse i suoi passi e contribuisse a sabotarne le buone intenzioni («Il fatto è che in segreto Max combatteva contro la follia. Spesso era in preda di desideri che spaventavano e facevano vergognare persino uno come lui»). Ecco allora che tutto si fa torvo, la voragine interiore che si avvicina a passi felpati, una follia che attenderà Max e Flora dietro l’angolo, pronta a inghiottirne l’anima, i sogni, la vita. Prigionieri, tutti, di una contraddizione insanabile, quella di chi crede in Dio ma non nella bontà divina. «Un Dio che ordina di macellare pecore e agnelli non può essere buono. Non dal punto di vista degli uomini, almeno. Se lo è dal punto di vista degli angeli, che lo lodino loro», scrive. Gli eroi di questo romanzo, come Bashevis stesso, hanno perso Dio senza guadagnare il mondo, trascinano le proprie contraddizioni fino al loro limite estremo, fino al punto di rottura. Così almeno ci racconta il travolgente epilogo di questo romanzo.
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