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Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 25/11/2015, a pag. 17, con il titolo "Vivete la vita, mai cancellare ciò che amiamo", l'intervista di Britta Heidemann a Salman Rushdie.
Salman Rushdie ha subito per anni la persecuzione del fanatismo religioso, ha pagato il prezzo della libertà con una vita da clandestino. Anche nell’ultimo romanzo fiabesco, Due anni, otto mesi & ventotto notti (Mondadori), le forze del male si scontrano con quelle del bene. Sembra che i folletti oscuri del suo romanzo siano tra noi. Non è che ha scritto una profezia invece di un romanzo? «È evidente che ci siano dei mostri all’opera. La lotta tra il razionale e l’irrazionale c’è sempre stata. È la storia dell’umanità che si ripete in eterno. E non è solo un conflitto esterno ma anche interno all’uomo. Ognuno di noi ha un tratto irrazionale indipendentemente da quanto crediamo di essere razionali. E indipendentemente da quanto crediamo di essere pacifici, siamo capaci di comportarci in modo assolutamente, e per niente, pacifico. Le favole raccontano sempre la realtà. Mostrano una versione frammentata, folle del presente». Dove era venerdì 13 novembre? Come ha appreso degli attacchi? «Ero a New York. Come tutti, sono inorridito. Ho molti amici che hanno suonato al Bataclan. Il grande obiettivo dei fanatici è la sfera del divertimento. A Parigi, quei giovani volevano uscire, festeggiare, vivere un normale venerdì sera. Era abbastanza per essere uccisi. È un conflitto tra il mondo puritano e quello della pace e del divertimento». Su Twitter ha scritto «I maniaci islamici screditano l’Islam». I musulmani ancora una volta prendono le distanze, attraverso l‘hashtag «notinmyname». «Ovviamente questi pazzi si ritengono dei musulmani, citano il Corano e gridano che Allah è grande. Non si può dire che l’Islam sia la religione dell’amore e della pace se le sue espressioni mostrano esattamente il contrario. Il terrorismo è una mutazione dell’Islam. È dovuto soprattutto all’educazione e all’istruzione, alla diffusione del wahabismo in Arabia Saudita per circa due o tre generazioni. È più legato al denaro e al petrolio che a crimini dell’Occidente e della sua politica estera». Quindi i Paesi occidentali non sono responsabili del suo sviluppo? «Ne ho abbastanza di chi dice che dobbiamo incolparci! Se io la faccio arrabbiare e lei mi uccide il mio comportamento non è una scusa, lei è sempre un assassino. Le vittime di Parigi non hanno fatto nulla, come neanche Charlie Hebdo . È nella natura della satira essere offensivi. Come dovrebbe essere una caricatura politica rispettosa? Non esiste. E che cosa hanno fatto di male gli avventori del supermercato ebraico?». Si può dire lo stesso di lei: non ha fatto niente, a parte scrivere un libro, o no? «Ora che è passato così tanto tempo, sono contento di una cosa: che oggi tutti, soprattutto i giovani, possono leggere il mio libro senza ritenerlo un oggetto scandaloso. Finalmente questo libro può vivere il normale corso di un romanzo: ad alcuni piace, ad altri non molto». Come ha affrontato la paura? Può darci un consiglio? «Bisogna accettare la situazione: non esiste la sicurezza assoluta, ma solo diversi livelli di insicurezza. Dobbiamo tutti morire. Quindi: vivete la vostra vita! Prendete il metrò, andate al ristorante, ai concerti. Come possiamo sopravvivere se cancelliamo le cose che amiamo? Naturalmente abbiamo bisogno di sapere che c’è gente che lavora per evitare il ripetersi di questi attentati. Ma la migliore vendetta è la pace. Non rinunciamoci! Viviamo nella parte fortunata del mondo (breve silenzio, ndr ). Sa qual è il danno peggiore causato dalla fatwa? Che io debba parlare di queste cose come un politico e non come uno scrittore. Come un oratore e non come un artista. È molto, molto frustrante. Non desidero essere Mr Liberty , il portavoce della libertà d’opinione. Ma naturalmente la gente spera di trovare delle risposte nell’arte e negli artisti. «Magari ci sono anche, queste risposte, ma in altri modi. Non come un programma. Vorrei creare uno spazio in cui i lettori possano trattenersi volentieri, sentendosi stimolati, provocati, arricchiti. Non succede spesso di appassionarsi a un libro. Ma quando ci appassioniamo, allora i libri possono trasformare il mondo in modo assolutamente imprevedibile. Così funziona l’arte, non nell’ambito dei discorsi pubblici, in cui vengo spesso coinvolto, mio malgrado, e dopo i quali sento un gran bisogno di restare a casa e occuparmi del mio giardino». Come il Candido di Voltaire, o il signor Geronimo del suo romanzo. «Per il signor Geronimo questa frase ha un altro significato, più positivo, che nel Candido : ovvero quello di seguire il proprio percorso. Con questo libro sono tornato alle storie che amavo da piccolo, a queste famose, meravigliose fiabe delle Mille e una notte . E al secondo mondo delle meraviglie conosciuto a Bombay, i film di Bollywood. Volevo rivisitare questa tradizione con il surrealismo occidentale». L’idea che gli elfi oscuri possano dimorare negli uomini è la sintesi delle fiabe con i concetti surrealisti della psicologia del profondo? «Proprio così. Quando scrivo mi affido all’istinto più che alla logica. L’idea che un elfo alberghi nell’uomo è soprattutto semplicemente forte. Non c’è nessun grande modello filosofico alla base della mia opera. Cresce, piuttosto, in modo organico. A volte capisco quello che ho fatto solo dopo averlo fatto. Vale per tutti i miei libri. Ho impiegato tre anni per scrivere il libro, e per metà di questi ho sperimentato. Mi sono divertito molto nello scrivere i libri per ragazzi Harum e Luka . Ho pensato, perché non far qualcosa di simile per gli adulti? Ci sono libri che si ammirano e libri che si amano. Se potessi scegliere, opterei sempre per l’amore! Anche in India questo libro ha già avuto molto successo, cosa che mi fa piacere». Oggi considera ancora l’India come la sua patria effettiva? «In un certo senso, il luogo in cui si è nati e cresciuti è sempre sentito come la propria patria. Ma oggi mi sento più a casa a New York. Non sono ancora riuscito a scrivere un romanzo senza un tema o una figura riferita all’India. Le mie radici indiane sono molte profonde. Ma l’India di cui scrivo non esiste più. Quando abitavo nell’odierno Sud Bombay, il quartiere in cui sono cresciuto, attraversavamo la campagna fino al mare, lungo un sentiero che ci conduceva a una spiaggia incredibilmente grande e deserta. Oggi quella zona è piena di grattacieli e la spiaggia è circondata da case. La città ha fagocitato la campagna». Uno dei personaggi del suo romanzo è il filosofo Averroè. Nel dodicesimo secolo, invocava la razionalità e la scienza, ma non era religioso. Quanto ha in comune con lui? «A parte gli evidenti punti in comune — si ispirava a lui mio padre, che fu perseguitato, e anche i suoi libri furono bruciati — il mio pensiero non è sovrapponibile al suo. Lui si è sempre mosso nell’ambito religioso, mentre io non sono un sostenitore della religione. L’aspetto ironico della sua opera è che, alla fine, era più influente al di fuori che all’interno della cultura islamica. Averroè ha influenzato molto gli umanisti, forse Tommaso d’Aquino. Quello che mi interessa sono soprattutto le differenze tra me e lui. Dopo aver scritto la mia autobiografia Joseph Anton non sono più interessato agli autoritratti. Al contrario, a volte mi attirano molto proprio i personaggi orribili dei miei libri. Il folletto più terribile è, come tale, sfacciatamente spaventoso, questo è emozionante!». (traduzione di Ettore C. Iannelli) Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera, telefonare 02/62821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante lettere@corriere.it |
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