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Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 28/07/2015, a pag. 4, con il titolo "Il ripiegamento di Obama deve avvicinare ancora di più l'Italia a Israele", il commento di Benedetto Della Vedova, Sottosegretario agli Esteri.
Fin dai suoi albori, la storia di Israele è intrecciata alle tragedie italiane ed europee e alla colpa inestinguibile della Shoah consumata nel cuore del Vecchio continente. Quella storia è oggi legata alla nostra da ragioni (se possibile) ancora più profonde e vitali di quelle che, dopo la fondazione dello stato ebraico, portarono a difendere Israele in prospettiva euroatlantica, come avamposto dell’identità e della libertà occidentale, in un’area in cui le tensioni della Guerra fredda e del nazionalismo arabo si scaricavano con particolare violenza sulla disprezzata “entità sionista” e alimentavano il sogno di guerre di riconquista. Come sappiamo, la fine della logica dei blocchi non ha stabilizzato un ordine internazionale pacifico e ha invece rinfocolato conflitti endemici, a partire da quelli religiosi.
Questo processo ha aggravato le ragioni di ostilità contro Israele, ma ha soprattutto comportato la letterale esplosione dell'ordine politico mediorientale (e dell'ordine interno palestinese, non dimentichiamo), che letture un po’ pavloviane continuano ad addebitare a errori occidentali, eludendone le cause endogene ed essenzialmente intra-islamiche. A questo si aggiunga il ripiegamento strategico americano dall’asse atlantico a quello pacifico e l’obiettiva difficoltà dell’Unione europea, senza una vera politica comune estera e di difesa, di surrogare dal punto di vista strategico e militare il ruolo dell’alleato americano nel medioriente: non c’è da stupirsi che Israele si senta sola e reagisca all’isolamento enfatizzando la necessità dell’autodifesa. Su questo tema si sono giocate anche le ultime elezioni della Knesset, premiando il leader, Netanyahu, che a questa esigenza dà la risposta più elementare e nel contesto attuale apparentemente più convincente presso l’elettorato. Era inevitabile che l’accordo sul nucleare iraniano sollevasse in Israele un allarme particolare, cui deve responsabilmente rispondere proprio chi ritiene che l’Europa e gli Stati Uniti abbiamo compiuto una scelta non priva di rischi, ma tutt’altro che azzardata, scommettendo sulla normalizzazione dei rapporti con un player sempre più essenziale negli equilibri mediorientali, non solo in funzione anti-Daesh. Ma su questo dobbiamo ai nostri interlocutori israeliani una speciale chiarezza.
L’accordo avrà senso non solo se cambierà i rapporti tra Teheran, il vecchio “Satana americano” e i suoi alleati europei, ma se servirà a neutralizzare la minaccia contro lo stato ebraico e a ridurre i rischi per la sua sicurezza. Nessun esercizio acrobatico di equidistanza, dunque. Su questo punto suonano inequivocabili le parole con cui il presidente del Consiglio Renzi ha ribadito la fratellanza morale e l’alleanza strategica dell’Italia con lo stato ebraico: “La nostra sicurezza è anche quella di Israele”. Nella sfida che il terrorismo islamista ha lanciato contro “ebrei” e “crociati”, le ragioni del nostro indissolubile legame con Israele sono scritte – a chiare lettere – nelle parole dei nostri nemici. Una posizione così netta è il viatico più promettente anche per il ruolo che l’Italia vorrà giocare sul tavolo del dialogo e dei possibili accordi con le autorità palestinesi, sulla base della logica “due popoli, due stati”. Lo ha sottolineato ieri anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla Conferenza degli Ambasciatori: “Rimettere in agenda il tema cruciale del riconoscimento pieno e non reversibile del diritto alla sicurezza di Israele e del diritto all’esistenza dello stato palestinese”. Una logica “giusta”, che ha avuto troppo spesso, però, interlocutori “sbagliati”. Per inviare la propria opinione al Foglio, telefonare 06/589090, oppure cliccare sulla e-mail sottostante lettere@ilfoglio.it |
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