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Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 15/01/2013, a pag. 1-15, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " Cinque buone ragioni per l'intervento in Mali". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Obama mette una pezza alle operazioni militari francesi in Mali e Somalia ", a pag. II, gli articoli di Carlo Panella e Pio Pompa titolati " Il Mali è il nuovo Afghanistan " e " E’ l’intelligence finanziaria ad aver convinto Parigi a intervenire in Mali ".
CORRIERE della SERA - Bernard-Henri Lévy : " Cinque buone ragioni per l'intervento in Mali "
L'intervento francese nel Mali è una buona cosa, almeno per cinque ragioni. Il FOGLIO - Carlo Panella : " Il Mali è il nuovo Afghanistan "
Se la Francia non fosse intervenuta, la capitale del Mali, Bamako sarebbe caduta nelle mani degli islamisti e di al Qaida in due o tre giorni”. Con queste parole, il ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian, ha inconsapevolmente esplicitato le ragioni che porteranno, con molta probabilità, a una vittoria strategica degli islamisti e alla trasformazione del Mali in un nuovo Afghanistan a ridosso del Mediterraneo. Francia e Nazioni Unite sono state prese di sorpresa dalla offensiva jihadista in Mali, nonostante fosse prevedibile già da dieci giorni. Ma avevano deciso di intervenire in tutta calma, non prima del prossimo settembre. La previsione errata mette in luce approssimazione ed errori basilari nella valutazione del nuovo pericolo jihadista. La fretta scomposta con cui sono intervenuti gli elicotteri Gazelle, la perdita immediata di uno di loro si sono accompagnati e si accompagneranno poi a una strutturale e strategica deficienza dell’intervento francese: l’assoluta incapacità dell’esercito del Mali di combattere sul terreno. Replicando, in chiave dieci volte peggiore, la dinamica della guerra libica, i battaglioni del capitano Sanogo, golpista, avanzano soltanto se dall’aria i caccia Rafale e gli elicotteri Gazelle dell’operazione Serval (questo il nome dato da Parigi all’intervento in Mali) fanno il vuoto davanti a loro (uccidendo decine di civili), ma non sono poi in grado di tenere nessuna posizione, e fuggono al primo urto. Ecco perché è necessario un rapido intervento di terra da parte di forze francesi o africane – forze non pronte, che giungeranno sul teatro di guerra precipitosamente; forze che soprattutto non hanno una “mission”, un orizzonte strategico chiari. Preparate da mesi, le operazioni francesi dall’aria si svolgono secondo uno schema preciso, ma hanno un’efficacia più che limitata perché non sono – e non lo saranno per lungo tempo – sostenute da una pianificazione d’intervento delle truppe di terra, al momento inesistenti. Con la sua abituale intelligenza politica, l’ex ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin, unica voce critica a Parigi nei confronti dell’avventura militare in Mali, ha messo a fuoco i termini del problema: “In Mali non abbiamo alcuna possibilità di successo. In Mali ci batteremo alla cieca. Arrestare lo sfondamento degli jihadisti verso sud, o riconquistare il nord del paese, o sradicare le basi di al Qaida nel Maghreb sono tutti obiettivi bellici differenti, nettamente diversificati. Per di più in un quadro che vede il nostro partner, il governo del Mali, del tutto instabile politicamente e in assoluta carenza di un appoggio regionale solido”. Quest’ultimo elemento è determinante e differenzia, in peggio, questa crisi da quella afghana, che presentano comunque “fondamentali” molto simili, come ha detto l’attuale ministro degli Esteri di Hollande, Laurent Fabius, che da mesi ha denunciato il pericolo di un “Sahelistan”, ripetizione dell’Afghanistan nel Sahel. Non è una forzatura cogliere un parallelo tra le dinamiche del rapporto tra tuareg e jihadisti e il rapporto tra talebani e al Qaida prima e dopo il 2001 in Afghanistan. Come i pashtun sono l’etnia di forza dei talebani in Afghanistan, così i tuareg e la loro storica rivolta sono in Mali la forza su cui si è innescata la forte presa degli jihadisti, che a un anno di distanza dall’arrivo dei miliziani tuareg dell’ex colonnello libico Muammar Gheddafi, sono riusciti a impadronirsi di Timbuctù, Gao e Kidal e della regione nord del Mali, l’Azawad. La secessione del nord del Mali del marzo 2012, come la resistenza afghana all’invasione sovietica, ha avuto il suo primo punto scatenante e mobilitante nell’insorgenza nazionalista, sotto la guida del laico Mnla, storico movimento indipendentista tuareg. Ma in pochi mesi il nazionalista Mnla è stato soppiantato dagli islamisti di Ansar Eddine e Mujao che, alleati con al Qaida nel Maghreb (Aqmi), vi hanno instaurato uno stato islamico nel nome della sharia più retriva. Come i talebani, Ansar Eddine, Mujao e Aqmi hanno dimostrato larga capacità di conquistare consenso popolare (anche tra la popolazione araba) alla predicazione più fondamentalista, distribuendo cibo e assistenza, grazie ai proventi del contrabbando, dei rapimenti e soprattutto della droga (in Mali transitano decine di tonnellate di droga latino-americana diretta in Europa). Laddove i talebani sono rispettati da larga parte della popolazione per la loro difesa del codice di famiglia “Pashtunwali”, in Mali Ansar al Din si è radicata in nome della difesa della lingua e delle tradizioni tuareg. Infine, come i Talebani seguono la leadership carismatica del mitico mullah Omar, in Mali primeggia la figura del leader tuareg Iyad Ag Ghali, leader indiscusso di Ansar al Din, capo della tribù “nobile” degli Ifoghas, convertito al salafismo pachistano, autore della offensiva di questi giorni, Ma i tuareg e gli jihadisti del nord del Mali – che rappresenta, secondo la Cia, “la più vasta area del mondo sotto il controllo dei terroristi islamici” – non hanno un’unica opzione di sostegno ed espansione al di là dei confini, come invece i talebani hanno soltanto nei territori tribali del Pakistan, mentre sono contenuti e contrastati a nord – e ferocemente – dalla “Alleanza del nord” costituita dalle etnie degli uzbeki, tagiki (sostenuti da Uzbekistan e Tagikistan), hazara (sostenuti dall’Iran), baluchi, turkmeni e altre minori. Al contrario, i tuareg del Mali sono circondati ovunque, a tutti i confini del paese e nell’intero Sahel, da etnie e popolazioni disponibili al contagio jihadista, in rotta da anni con i propri governi centrali in Algeria, Niger e Ciad, per non parlare della Nigeria e delle tribù del Fezzan libico, che mal sopportano il governo della “nuova Libia”, egemonizzato dai cirenaici e dai tripolini. Si è così verificata la profezia infausta di Gheddafi. Eliminato – senza prevederne le conseguenze – l’enorme potere di egemonia politico-militare di Gheddafi sull’intera regione, che agiva, dopo decenni di destabilizzazione, da forte, potente (e feroce) elemento di stabilità e di equilibrio regionale, sono esplose le forze centrifughe, mal governate da regimi deboli (ad eccezione di quello algerino). Anzi, hanno subito trovato una forte, chiara e attraente proposta politica, incarnata da Ansar al Din e Mujao, nel Mali, e dalla notevole “massa critica”, ideologica, politica e militare costituita dalla loro alleanza con i Boko Haram della Nigeria e con al Qaida del Maghreb (in cui è confluito il Gia algerino, e gruppi qaidisti del Marocco, della Mauritania, della Tunisia e persino fronde di saharawi in rotta col Polisario). Non a caso, il generale francese Vincent Desportes definisce l’operazione Serval “il secondo tempo della guerra in Libia”. Tutti gli analisti sanno che è più che possibile un rapido contagio della rivolta del Mali, innanzitutto fra i tuareg del fragile Niger, poi nel Ciad, in Burkina Faso e infine – ma con maggiori difficoltà – in Algeria, nella quale i tuareg locali, che hanno già attuato due rivolte nei decenni scorsi, controllano la fondamentale regione petrolifera di Tamanrasset (strategica per le forniture petrolifere all’Europa e all’Italia). La “carenza di un appoggio regionale solido” all’intervento militare francese denunciata da De Villepin è dovuta ai più che fondati timori dei governi delle nazioni limitrofe di una rapida estensione all’interno dei loro confini della rivolta jihadista del Mali. Con sorpresa, Hillary Clinton, ne ha dovuto prendere atto nella sua ultima missione come segretario di stato. Cosciente del pericolo costituito dal Sahelistan jihadista, la Clinton si è recata a novembre ad Algeri per chiedere un rapido intervento militare algerino contro Ansar al Din e Mujao. Ma ha dovuto accettare l’assoluta indisponibilità di Bouteflika a un impegno immediato e ha dovuto subir l’opzione algerina favorevole a uno spostamento al settembre 2013 di una eventuale azione militare e all’avvio di una trattativa con Ansar Eddine, condotta (con il risultato che si vede in queste ore) dal presidente del Burkina Faso. Le ragioni dell’opposizione algerina all’impegno militare immediato sono state chiarite dal leader dei tuareg algerini Mohammed Guemama, parlamentare eletto a Tamanrasset, fedelissimo del Fnl (partito di regime ad Algeri), insospettabile di simpatia per l’area qaidista, che a fine ottobre 2012 aveva dichiarato: “L’intervento militare in Mali ha obiettivi coloniali: possiamo programmare l’inizio delle operazioni militari, ma mai la fine, l’esempio della Libia è eloquente”. La Francia di François Hollande è stata costretta a un precipitoso – e non preparato – intervento militare in extremis in Mali che ha l’appoggio e la copertura formale unanime e molto, molto multilaterale dell’Onu, ma che è e sarà vissuto, anche e persino da tuareg laici e fedelissimi a un regime come quello algerino, come un “intervento militare coloniale”. Le conseguenze disastrose sono ovvie (e non solo per la sorte dei poveri ostaggi oggi in mano ai terroristi nel Sahel) per Hollande, percepito ora come un novello George W. Bush da un’ampia platea maghrebina. Per di più sotto la cappa della terribile profezia di disastro che vede concordi De Villepin e il moderato leader tuareg algerino (amico della Francia), perfetto conoscitore delle dinamiche della regione. Non è difficile prevedere l’esito dei prossimi movimenti sulla scacchiera bellica del Mali. Su mandato dell’Onu, nei prossimi giorni, truppe dei paesi confinanti entreranno in Mali nel tentativo di sostituire sul terreno l’assoluta, totale incapacità dell’esercito del Mali di reggere all’urto dei jihadisti, non appena gli elicotteri Gazelle si allontanano (nei loro confronti, i pur caotici combattenti libici avevano una compattezza prussiana). Probabilmente, ma non è certo, dopo la riconquista di Konna, l’intervento francese dall’aria e dei caschi blu sul terreno conseguirà qualche altro successo tattico. Ma dato che la Francia e l’Onu non hanno – De Villepin ha ragione – nessun obiettivo strategico definito (e peraltro non hanno la forza politico-militare per perseguirne alcuno), si apriranno due scenari. O una “hudna”, una tregua islamica da parte di Ansar al Din che cesserà la pressione verso Bamako, per ritornare presto alla carica. Oppure, questo non va escluso, un suo mutamento di tecniche d’attacco, con l’aggressione dello strategico aeroporto di Sevaré (tenuto dall’esercito del Mali) non più, come ha fatto in questi giorni, con il movimento di pick up armati lungo le strade, con conquista dei centri abitati, ma con azioni di guerriglia e kamikaze, attraverso l’invisibile (e misterioso) reticolo di camminamenti sull’immenso territorio conosciuto a perfezione solo dai tuareg. Per certo, si assisterà da subito, al tentativo di accelerare il contagio bellico, con sollevazioni nei paesi limitrofi al Mali. Oltre alla ovvia ondata di azioni terroristiche, forse anche in Francia. Entrare in guerra, senza avere chiaro quale sia il suo obiettivo finale e senza alleati sicuri sullo scenario regionale è possibile. Ma porta alla sconfitta. Questo è esattamente quello che ha fatto François Hollande, nella sua prima impresa africana. Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Obama mette una pezza alle operazioni militari francesi in Mali e Somalia"
Il FOGLIO - Pio Pompa : " E’ l’intelligence finanziaria ad aver convinto Parigi a intervenire in Mali " La risoluzione 2.085 dell’Onu, che prevede il dispiegamento nel Mali di una forza armata internazionale entro il prossimo settembre, un effetto immediato lo ha avuto. Quello di provocare la reazione delle formazioni jihadiste (Aqmi, Mujao e Ansar Eddine), attestate nel nord del paese, che hanno lanciato un’offensiva contro la città di Konna per impadronirsi del suo aeroporto ritenuto uno snodo nevralgico per qualsiasi iniziativa militare straniera diretta contro di loro. Da qui il precipitare degli eventi con l’invocazione di aiuto, rivolta alla Francia dal presidente Dioncounda Traoré, e la pronta risposta di Parigi che attendeva un pretesto per intervenire militarmente nella crisi maliana. Sennonché a convincere il presidente, François Hollande, dell’urgenza dell’intervento militare francese, non sarebbe stata tanto la divisione antiterrorismo della Direction Général de la Sécurité Extérieure (Dgse), quanto l’iperspecializzato e invasivo dipartimento d’intelligence economico-finanziaria. Lo stesso che da mesi insisteva, sulla base delle informative provenienti dal proprio dispositivo humint (human intelligence) dislocato nell’intero Sahel, sul grave rischio cui sarebbero stati esposti gli interessi economici e finanziari francesi qualora la strategia jihadista, nel nord del Mali, avesse assunto un carattere endemico coinvolgendo, con un effetto domino, i paesi limitrofi e il Niger con le sue miniere di uranio controllate dalla multinazionale francese Areva. Che il Niger fosse da tempo nel mirino di al Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi) e dei suoi alleati, che ancora detengono nel nord del Mali quattro dipendenti francesi dell’Areva sequestrati in quel paese il 16 settembre del 2010, è ormai un dato di fatto. Come lo è la rabbia della popolazione nigerina che, da sempre, si sente oppressa e depauperata delle risorse minerarie dal potere, economico e politico, esercitato da Parigi nella sua ex colonia. La rabbia si è acuita trasformandosi in sollevazioni quando, nell’ottobre dello scorso anno, sono iniziate a trapelare le notizie su un possibile accordo franco-cinese per lo sfruttamento della miniera di Imouraren, in grado di produrre cinquemila tonnellate di uranio l’anno, con un investimento da 1,2 miliardi di euro. Caso ha voluto che l’annuncio dell’accordo, con cui la società cinese Cgnpc si è garantita una partecipazione del 10 per cento nella miniera di Imouraren (detenuta al 57 per cento da Areva e al 33 dallo stato del Niger), sia intervenuto, per bocca del direttore produttivo di Edf (cui fa capo Areva), Hervé Machenaud, quasi alla vigilia dell’avvio in Mali dell’operazione Serval. Il Niger è solo un aspetto, sia pure importante, della strategia più complessiva di tale operazione volta a garantire, attraverso una stabilizzazione dell’intero Sahel, soprattutto gli interessi e la primazìa francese in quello scacchiere. Ma, nonostante il sostegno algerino e di altri paesi africani, l’impresa non sarà facile. Gli apparati d’intelligence francesi e britannici, già esistenti in quell’area, pur potendo contare su reti di spionaggio composte da infiltrati e informatori locali, risentono della loro scarsa affidabilità e propensione al doppiogioco con i vari gruppi jihadisti. Questi gruppi dispongono di enormi somme di denaro, derivanti dai sequestri di persona, dal traffico di droga, armi ed esseri umani, da destinare al proselitismo, alla corruzione di uomini politici, delle forze di sicurezza e d’intelligence. A tutto ciò va aggiunto un ulteriore dato preoccupante sul reclutamento da parte di al Qaida nel Maghreb islamico di militari, appartenenti alle Forze armate del Mali e del Niger, ai quali viene garantito uno stipendio mensile compreso tra 4.500 e 6.000 euro. Un trattamento appena diverso sarebbe riservato ai militanti provenienti dall’Algeria, dalla Tunisia, dai campi saharawi di Tindouf, dal Pakistan e da alcuni paesi europei tra cui Italia e Francia. I rischi che incombono sulla missione francese sono molteplici e ricordano molto da vicino il pantano dell’Afghanistan. Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera e Foglio, cliccare sulle e-mail sottostanti lettere@corriere.it lettere@ilfoglio.it |
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