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Su PANORAMA del 19 dicembre 2008, Giovanni Porzio intervista, Obeida Abd al-Rahman Mohammad Abu Aishi, una palestinese divenuta infermiera dopo essere stata arrestata dagli israeliani mentre era in procinto di compiere un attentato suicida. «Volevo uccidere» ricorda con un filo di voce. «Ora lotto ogni giorno per salvare la vita dei miei pazienti. Ma non c’è contraddizione: mi batto per il popolo palestinese. Non sono un’assassina». Era il 2002. L’anno del massacro di Jenin, della rioccupazione delle città della Cisgiordania, dell’accerchiamento di Yasser Arafat fra le mura diroccate della Muqata. Obeida prestava servizio come volontaria su un’ambulanza, a Ramallah, insieme ad Ali, il suo fidanzato, che durante la prima intifada era stato colpito alla testa da un proiettile e aveva perso un occhio. «Avevo già provato l’abito bianco» racconta Obeida. «Mancavano solo quattro giorni alla data fissata per le nozze, quando Ali è stato ucciso da un missile. In un istante il mondo mi è crollato addosso». Obeida, sconvolta, vuole vendicarlo. Suo fratello Safwat è uno shahid, un martire della resistenza: si è fatto esplodere il 21 gennaio 2002 in una stazione degli autobus di Tel Aviv, cinque morti e 15 feriti. Obeida decide di seguire il suo esempio. E a Nablus, dove vive con i genitori, contatta i dirigenti della Jihad islamica. «All’inizio erano contrari, non volevano donne kamikaze. Non volevano un altro martire nella stessa famiglia. Ma io ho insistito e alla fine hanno accettato. Ero decisa a farlo nello stesso posto dove era morto mio fratello». In segreto comincia ad addestrarsi. Impara a muoversi con disinvoltura indossando sotto la veste il giubbotto e la cintura al plastico. È lei stessa a confezionarli. «Nei tasconi interni della cintura» ricorda «si mette l’esplosivo, le tasche della giacca si riempiono di schegge di metallo. Il saeeq, il cavo con la miccia detonante, viene immerso nell’esplosivo ed è azionato da un pulsante». Ai primi di febbraio tutto è pronto. Obeida si avvicina al posto di blocco che deve superare per raggiungere Tel Aviv. «Non avevo la minima paura» ricorda. «Stavo per rivedere Ali e mio fratello in paradiso». C’è però un imprevisto: i soldati arrestano una ragazza palestinese. Obeida è costretta a rinunciare e tornare sui suoi passi. L’operazione è rinviata. Ma intanto, il 27 febbraio, suo cugino Darin si immola in un attentato suicida al check-point di Modein. Il cerchio intorno a Obeida si stringe: lo Shin bet, il servizio segreto interno israeliano, ha saputo qualcosa, la polizia la sta cercando. E quattro mesi dopo, il 2 giugno, i militari circondano la casa del villaggio di Beit Wasan dove Obeida si è nascosta con altri due militanti della Jihad. «Era l’alba. Quando mi sono accorta dell’arrivo dei soldati ho svegliato i miei compagni. Eravamo armati, ma abbiamo deciso di non sparare perché gli israeliani avevano uno scudo umano». Prima di arrendersi Obeida fa in tempo a scrivere sulla parete un messaggio ai familiari: «Non state in pena per me: l’amore per la mia patria mi aiuterà a sopportare la prigionia». Il carcere è stato duro. «Mi chiamavano mukharribah, terrorista. Per tre anni e mezzo non ho potuto vedere nessuno: quando riuscivo ad avere un giornale guardavo i necrologi col terrore di trovare il nome di mio padre o di mia madre. In sei anni ho visto i miei genitori solo tre volte: da loro ho saputo che, dopo l’arresto, la nostra casa era stata rasa al suolo dai bulldozer dell’esercito». In prigione Obeida è cambiata. «Ero una ragazza fragile e ingenua» dice. «Sono diventata una donna molto più forte. Non ho mai mostrato i miei sentimenti alle guardie; non ho mai svelato le mie debolezze alle altre detenute. Se non sono riuscita a combinare nulla per la causa palestinese, ho almeno conquistato qualcosa per me stessa». Obeida non crede più negli attentati suicidi. Non rifarebbe quel cammino verso il posto di blocco israeliano che il destino ha fermato. La sua battaglia contro l’occupazione israeliana si svolge dentro i reparti dell’ospedale palestinese di Hebron e nelle associazioni femminili per la pace. Ma le ferite dell’anima non si sono rimarginate e il sorriso che ogni tanto le affiora sulle labbra ha una piega amara. «Sono ancora innamorata di Ali» confessa. Sulla sua tomba, dove è corsa dopo la liberazione, ha lasciato un biglietto: «Scusa, ho tentato di venire da te». Obeida ha poi accettato di sposarsi: un matrimonio combinato, infelice. E il bambino che lei vorrebbe non arriva. «Mi sono sposata per avere un figlio e non riesco a restare incinta. Mio marito vuole da me solo sesso, cucina e pulizie di casa, come tutti gli uomini di Hebron. Gli dico che sono la sua compagna, non una serva. Ali avrebbe capito, lui no». Fuori pioviggina. È una giornata d’inizio inverno e lo sguardo di Obeida si perde oltre il finestrone dell’infermeria, tra le nuvole grigie e in un cortile dove i bambini giocano a pallone. «So che non potrò mai vivere una vita normale. So che non potrò mai essere una madre come le altre. Ma non sono un mostro assetato di sangue. Sono un essere umano: è questo che vorrei dire agli israeliani. Tra i kamikaze ci sono donne come me, studenti universitari, impiegati, gente comune. Persone che sono quasi sempre spinte ad azioni estreme dalla disperazione per la perdita di un congiunto, della casa, del lavoro. Per molti di noi la morte è preferibile all’umiliazione di una vita senza futuro, senza patria e senza libertà». panorama@mondadori.it |
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