In Iraq l'America può vincere e anche i democratici lo sanno
Testata: Il Foglio Data: 02 agosto 2007 Pagina: 4 Autore: Christian Rocca Titolo: «In Iraq, come in Vietnam, si vince. Stavolta lo sanno anche a sinistra»
Dal FOGLIO del 2 agosto 2007:
New York. Era già successo ai tempi della guerra del Vietnam: nel 1968 l’offensiva vietnamita del Tet era stata un disastro strategico per l’esercito comunista, nel 1972 la campagna di bombardamenti di Natale – condotta dal nuovo comandante americano inviato dalla Casa Bianca per riparare gli errori precedenti – aveva devastato il fronte nordvietnamita. L’America stava vincendo sul campo la guerra. Appena qualche mese prima, gli elettori americani avevano scelto di riconfermare Richard Nixon alla presidenza e di non fidarsi del candidato democratico George McGovern, il cui slogan pacifista “Come home, America” è ora ricordato come uno dei più disastrosi di sempre. Eppure, l’esito della guerra fu deciso a Washington qualche mese dopo, quando la politica, i giornali e l’opinione pubblica decisero che la partita era ormai invincibile, se non già persa. L’idea kennediana di intervenire militarmente per fermare l’effetto domino sui paesi vicini se i comunisti avessero prevalso in Vietnam fu giudicata folle, malgrado gli sviluppi successivi confermarono ampiamente i timori dell’avanzata “rossa” nella regione. In questi giorni a Washington si gioca una partita molto simile, ma con qualche flebile segno che le cose, questa volta, possano andare in modo diverso. In Iraq c’è un nuovo comandante, David Petraeus, scelto a febbraio dal presidente rieletto George Bush per attuare una nuova e più aggressiva strategia politico-militare irachena e sconfiggere l’alleanza tra jihadisti e saddamiti. Fonti militari (di parte) e giornalistiche (indipendenti) raccontano i segnali positivi – maggiore collaborazione irachena, miglioramento della sicurezza nelle zone un tempo in mano ad al Qaida e alle milizie, diminuzione di kamikaze e omicidi, perdita di consenso dei terroristi tra le tribù sunnite. Non c’è ancora la certezza che si tratti di una svolta definitiva, ma per gli ormai radi sostenitori dell’Amministrazione è sufficiente per chiedere di “Give Petraeus a chance”, cioè di concedere a Petraeus la possibilità di finire il suo lavoro. Bush è determinato a continuare l’opera, specie ora che arrivano le prime buone notizie, e si appresta già a settembre a chiedere al Congresso, tramite Petraeus, di sostenere la nuova strategia ancora nel 2008. L’asse politico di Washington s’è però spostato decisamente sul fronte pacifista, un po’ per la carneficina irachena, un po’ per la stanchezza nei confronti di Bush, un po’ per la fisiologica radicalizzazione del clima politico a pochi mesi dalle elezioni primarie. I leader democratici al Congresso chiedono il ritiro dall’Iraq, giudicano “persa” la guerra e cercano di imbrigliare i poteri da comandante in capo del presidente (ma non al punto da esercitare il loro unico potere: quello di bloccare il finanziamento della guerra). I giornali liberal vogliono il rientro a casa delle truppe e anche i cosiddetti falchi del partito democratico, Hillary Clinton in primis, si sono allineati per non allontanarsi troppo da Barack Obama, l’unico tra i big a essere stato contrario alla guerra fin dall’inizio. Si moltiplicano i mal di pancia anche tra i repubblicani, anche se poi non si risolvono in voti contrari alla strategia bushiana. candidati di centrodestra alla Casa Bianca, inoltre, si presentano più bellicosi di Bush, quindi la partita si gioca prevalentemente tra i democratici e gli opinionisti liberal. Negli ultimi mesi i segnali sono stati inequivoci: la sinistra politica ed editoriale vuole chiudere il capitolo iracheno e, grazie a questa nuova consapevolezza dettata dall’opinione pubblica liberal e radical, si appresta a vincere le elezioni del 2008. Senonché, sono capitati due fatti nuovi, forse capaci di ribaltare la situazione. Un articolo del New York Times dal titolo “Una guerra che potremmo vincere”, scritto da due stimatissimi analisti liberal di cose militari e mediorientali, Michael O’Hanlon e Kenneth Pollack (Council on Foreign Relations il primo, Brookings Institution il secondo), è diventato l’argomento di dibattito nei circoli politici della capitale e sui blog. I due, di ritorno dall’Iraq, hanno registrato tanti di quei progressi da giudicare “surreale” la tendenza politica di Washington a favore del ritiro. Gli uomini di Bush hanno cominciato a inviare via e-mail l’articolo pochi minuti dopo che il New York Times l’aveva messo online, più o meno mentre il Pentagono chiedeva al Congresso altri sei miliardi di dollari per l’Iraq. I commentatori di destra parlano di “turning point”, ovvero di momento decisivo per la vittoria in Iraq, e citano senza sosta l’articolo di O’Hanlon e Pollack. La rete di blogger di sinistra, invece, s’è scatenata al contrario, attaccando in ogni modo possibile i due analisti liberal, mentre qualche big del Partito democratico, come Jim Clyburn, ha invitato i suoi a considerare l’ipotesi di cambiare idea, qualora i risultati della strategia di Petraeus continuassero a essere positivi. Il secondo episodio è stata la convention del Democratic Leadership Council (Dlc), l’ala centrista e clintoniana del partito democratico, bestia nera dei militanti più radicali. Nessun candidato presidenziale ha accettato l’invito del Dlc, confermando lo spostamento a sinistra del partito. Però c’erano quattro governatori di stati del sud e dell’ovest, un parterre impossibile da sottovalutare visto che gli ultimi due presidenti democratici sono stati governatori del sud e membri del Dlc. I quattro hanno invitato i leader a non trasformare i democratici nel partito anti guerra, pena la mancanza di credibilità sui temi della sicurezza e della difesa nazionale e, di conseguenza, causa probabile di sconfitta elettorale. Come nei lunghi anni del post Vietnam.
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