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Sull'Espresso del 29 luglio 2004 Paola Caridi firma un articolo sullo scontro di potere in atto a Gaza. La giornalista sembra rimuovere totalmente le responsabilità di Arafat e del suo regime corrotto e violento nel determinare l'attuale degrado della società e della politica palestinesi. Scrive infatti che se il ritiro israeliano "sarà parziale, Gaza diventerà un ghetto soffocante in preda all'anarchia, senza nessun governo centrale e in mano a diversi signori della guerra locali. Una prospettiva che ricorda decisamente quella somala". Se invece Israele si ritirerà del tutto, par di capire, il buon governo di Arafat farà di Gaza una specie di Svizzera. Malversazioni, milizie personali, sostegno al terrorismo, per la Caridi non esistono, tutti i problemi di Gaza deriveranno, anche dopo il ritiro, dagli israeliani oltre che da Dahlan che, forse perchè è l'unico capo di un servizio di sicurezza palestinese disposto a contrastare il terrorismo, è indicato come l'artefice del "caos scatenato una settimana fa". Non un sistema di governo intollerabilmente corr otto ha prodotto il caos, ma il tentativo di rovesciarlo... L'ipotesi che gli israeliani continuino dopo il ritiro con "incursioni militari e omicidi mirati" non è collegata all'eventuale protrarsi degli atti terroristici cui quelle incursioni e quelli omicidi darebbero risposta. Così che potrebbe sembrare che, ritiratisi da Gaza, gli israeliani volessero conservare il diritto di uccidervi ogni tanto qualcuno o di entrarvi con i carri armati, si dovrebbe supporre per mera prepotenza. Infine l'affermazione di un ministro dell'Anp secondo la quale ancora oggi Arafat vincerebbe le elezioni si presta a commenti ovvi che la Caridi non fa: anzitutto che le elezioni, intanto, non ci sono, e dove dovevano esserci (Al Fatah, consigli comunali) sono state bloccate da Arafat per paura di perderle. In secondo luogo che censura (denunciata recentemente dai giornalisti palestinesi), corruzione e violenze potrebbero anche far vincere ad Arafat eventuali consultazioni, ma, con questo, nulla ancora sapremmo del consenso del quale il rais godrebbe in un contesto autenticamente democratico. Ecco il pezzo: Non c'è stato neanche il tempo di gustare la vittoria all'Aja, per la durissima sentenza della Corte internazionale di Giustizia contro il muro di separazione che Israele sta costruendo dentro la Cisgiordania. Appena una settimana, giusto il tempo per affilare le armi, presentarsi all'Assemblea generale straordinaria del1'Onu per cominciare a discutere dell'illegalità del muro. Poi di colpo, con un perfetto cambio immagine, i riflettori si sano spostati su Gaza. Sui sequestri lampo, sui giovani armati per le strade di Rafah, sui feriti da fuoco amico trasportati negli ospedali. E il muro è diventata, per l'Autorità nazionale palestinese, l'ultimo dei problemi. Prove generali di guerra civile, sono stati definiti gli scontri tra i "giovani turchi" delle brigate legate ad A1 Fatah e i corpi di sicurezza dell'Anp a Gaza. Gli esperti di cose palestinesi, però, ci vanno cauti. La vera guerra, dicono, non è ancora cominciata. Che è poi la guerra per il potere a Gaza. E quella, parallela, per sfidare Yasser Arafat a Ramallah. II caos di metà luglio tra Gaza, Khan Younis e Rafah è solo la prima avvisaglia di un periodo di turbolenze che durerà un anno o, molto più probabilmente, un anno e mezzo. II tempo necessario all'esercito israeliano per evacuare i 7.500 coloni nella Striscia e lasciare Gaza al suo destino. È cominciata una guerra di logoramento, insomma. Di cui sono già noti i protagonisti, tutti interni ad Al Fatah, il movimento nazionalista palestinese legato indissolubilmente, e fin dalla sua nascita, al vecchio Yasser Arafat. Da una parte la vecchia guardia, riunita attorno ad Arafat e all'Anp, che a Gaza ha le mani legate e conta già molto poco. Dall'altra la nuova, anzi nuovissima guardia. I ragazzi, cresciuti nei campi profughi, senza legami con la diaspora e il mito del diritto al ritorno. Tutti profondamente disillusi dal decennio di fallimenti dell'Anp e dai risultati deludenti dell'intifada che ha portato troppi morti, troppe distruzioni e nessun risultato politico. Quelli di Gaza sono ragazzi che hanno osato sfidare il simbolo del popolo palestinese, il vecchio Arafat che nella cittadina non si vede da parecchio tempo, visto che il confino dentro la Muqata, a Ramallah, dura ormai da oltre due anni. I ragazzi, però, non sono certo scesi in piazza per una sfida adolescenziale contro il padre. Sono piuttosto la massa di manovra di un congruo numero di "signori" che si stanno preparando al vero scontro di potere. È per questo che tutti, a Gaza così come a Ramallah e a Gerusalemme, si sono affrettati a dire che dietro il caos scatenato una settimana fa - e che ha fatto vacillare pesantemente il governo di Abu Ala e la credibilità di Arafat - c'è Mohammed Dahlan. Ovvero, l'unico avversario di Arafat. Se si esclude, ovviamente, la galassia integralista che va da Harnas alla jihad islamica. Che in questi giorni si è ben guardata dal muoversi, assistendo in silenzio alla spettacolo della spaccatura di Al Fatah. Dahlan, l'ex ministro della Sicurezza dei governa balneare di Abu Mazen, caduta un anno e mezzo fa per il fallimento della hudna, la tregua negli attentati suicidi negoziata dagli egiziani. Quella tregua fu rotta ad agosto del 2003 da un kamikaze travestito da ortodosso che si é fatto esplodere in un autobus gremito dì passeggeri a Gerusalemme. Dahlan che da ministro aveva spinto per riformare tutti i servizi di sicurezza palestinesi e portarli sotto un unico comando (il suo), strappandoli in questo modo al controllo di Arafat. Dahlan considerato l'uomo di cui si potrebbero fidare sia gli israeliani sia gli americani. E di cui già si fidano gli egiziani. Mentre i giordani debbono ancora essere convinti da quello che tutti considerano l'esponente più forte della "giovane guardia" di Gaza. Il nome di Dahlan, d'altro canto, era già stato fatta nel febbraio scorso. Sempre a proposito di un attacco subito da Ghazi Jabali, l'ex capo della polizia a Gaza oggetto del primo sequestro lampo di una settimana fa, considerato il luogotenente di Arafat nella Striscia. Il bersaglio preferito, in sostanza, per chi vuole mandare un messaggio forte alla Muqata. Cinque mesi fa, Jabali aveva già ricevuto la visita di uomini considerati legati a Dahlan. Raccontano che i membri della spedizione punitiva lo avessero pesantemente umiliato, oltre ad aver ammazzato un poliziotto e ferito altri dieci.Venerdì scorso, l'ultimo attacco. Quella vincente. Jabali viene sequestrato per poche ore da un commando che sfoggia una sigla nuova di zecca: le Brigate dei Martiri di Jenin. E viene subito rilasciato nelle mani di un amico personale di Dahlan, Rashid Abu Shbak, capo delle forze di prevenzione. Un altro dei tanti corpi dì sicurezza palestinese che la comunità internazionale vorrebbe accorpati di numero e ricondotti a una gestione più istituzionalizzata. Fuori, quindi, dalle mani di Arafat. I miliziani chiedono che Jabali venga destituito e venga messo sotto processo per corruzione. Arafat li accontenta. E lo liquida. Mostrando per la prima volta una cedevolezza inconsueta. Molto più pericolosa della parziale retromarcia inserita da Arafat sulla nomina, ritirata 48 ore dopo, dì suo cugino Mussa a capo del corpo di sicurezza generale. A rendere ancor più dura la situazione ecco il secondo sequestro lampo. Quattro cooperanti francesi, quattro volontari che erano andati a Khan Younis, considerato feudo di Dahlan, per riparare le linee elettriche distrutte dall'esercito israeliano. Il passa parola di chi conosce i retroscena di questa storia spiega che questo non è altro che un messaggio diretto ad Arafat. Essendo i rapiti di nazionalità francese il risultato è stato un irrigidimento della diplomazia di Parigi a pochi giorni dalla visita che il ministro degli esteri Michel Barnier aveva fatto ad Arafat. Sfidando, in questo caso, il veto del premier israeliano Ariel Sharon, che si rifiuta sistematicamente di ricevere i diplomatici di tutto il mondo che mettono in programma anche un incontro alta Muqata con il presidente dell'Anp. Dunque il messaggio era: la sicurezza dell'Autorità nazionale non é in grado di proteggere amici preziosi come i francesi. Ma all'ex ministra palestinese Dahlan converrà alzare ancora il livello dello scontro con altre azioni anti Arafat? «II collasso dell'Autorità palestinese sarà molto più graduale», dice Khalil Shíkaki, capo del Palestinia n Center far Policy and Survey Research di Ramallah. Aggiunge Shikakì, che é un politologo assai stimato: «A1 momento del disimpegno israeliana da Gaza, I'Anp sarà incredibilmente indebolita. L'Anp diventerà, insomma, solo un patere nominale. II suo ruolo sarà visto come assolutamente irrilevante, vista che gli israeliani non negozieranno con 1'Anp il disimpegno, ma lo condurranno in maniera unilaterale. E il potere vero, quello reale, sarà diviso tra la giovane guardia, quella che era per le strade in questi giorni, e gli islamisti». II quadro disegnato da Shikaki prevederebbe un accorda tra i giovani di Fatah e gli israeliani: sarebbe quindi necessaria un'intesa can le frange islamiste per tenere realmente sotto controllo la Striscia. Molto dipende però, secondo questa lettura del futura di Gaza, da come si configurerà il disimpegno dell'esercito di Israele. 5e l'uscita sarà parziale, Gaza diventerà un ghetto soffocante in preda all'anarchia, senza nessun governo centrale e in mano a diversi signori della guerra locali. Una prospettiva che ricorda decisamente quella somala. Se l'uscita, invece, sarà completa, allora potrebbe essere passibile una coalizione tra Dahlan, gli altri signori di Gaza di marca nazionalista e gli islamismi Dovrebbero essere gli egîziani, a questo punto, i supervisori di una situazione nuova e per niente semplice. Di cui, al Cairo, conoscono bene i pericoli. Uno su tutti: la possibilità di rimanere intrappaolati come topi nella Striscia, nel caso gli israeliani continuassero con attacchi militari od omicidi mirati. Gli esperti che l'Egitto dovrebbe mandare in loco (qualche centinaia) potrebbero diventare il prima bersaglio fisica della rabbia palestinese. Motivo per il quale Omar Suleiman, numero due del regime egiziana, passibile candidato alla successione di Hosni Mubarak e manovratore dell'impegno del Cairo a Gaza, ha chiesta una cosa sola agli israeliani. Nessuna operazione militare a Gaza dopo il disimpegno. Sharon non ha data nessuna sicurezza in proposito, durante l'ultimo incontro con Suleiman. E gli egiziani sono ora sempre più perplessi. La perplessità regna anche in Cisgiordania, per l'influenza che la lotta di potere a Gaza può avere più a nord. C'è chi pensa che la delusione nei confronti della leadership palestinese abbia raggiunto il suo livello più alto. Chi parla di una pericolosa frammentazione dentro Al Fatali. E chi descrive una situazione anarchica per le strade, dove t'Anp non riesce a riportare legge e ordine. E che ha generato la sfida al vecchio leader. Non la pensa così Ghassan Khatib, ministro del lavoro nel governo di Ahmed Qoreia. E prima, per nove anni, capo di un organismo - lo JMCC di Gerusalemme - che si occupa anche di sondaggi d'opinione. « Ci sono pochissime probabilità che quello che è successo a Gaza si espanda verso la Cisgiordania», spiega. Intanto perché «la Cisgiordania è sotto occupazione israeliana, ed è quindi difficile che si possano avere scontri di questo tipo. E poi la gran parte dei capi della sicurezza viene da Gaza ». Ci sono però, secondo Khatib, anche ragioni più politiche alla base della distanza tra la Striscia e la tuttora borghese Cisgiordania, in cui la povertà - nonostante l'altissimo tasso di disoccupazione e la profonda crisi economica - non raggiunge comunque i livelli dei campì profughi di Gaza. Le divergenze si fondano, soprattutto, sul modo in cui viene visto il disimpegno unilaterale di Sharon. Da Gaza, come una vittoria dei militanti che combattono l'esercito israeliano quotidianamente. Dalla Cisgiordania, che vede il ritiro da Gaza come l'espansione delle colonie ebraiche già presenti a spese dei palestinesi, con l'aggravante che, per rendere permanente la situazione, gli israeliani vogliono gestire parallelamente il disimpegno da Gaza con la veloce costruzione del muro. Una posizione, questa, chiaramente espressa da Arafat. Che piace dunque in Cisgiordania e meno agli abitanti di Rafah. «Ancora oggi», commenta Khatib, «la gran maggioranza dei palestinesi voterebbe per Arafat in una consultazione elettorale. Non c'è nessun'altra figura politica che possa sfidarlo nelle urne». Sempre L'Espresso pubblica un articolo di Gigi Riva dedicato al film di Saverio Costanzo "Private", che sarà presentato al prossimo festival di Locarno. Il film racconta dell'occupazione di una casa palestinese da parte di alcuni soldati israeliani. Nulla possiamo dire del film, che non abbiamo visto, mentre la presentazione che Riva ne fa appare decisamente squilibrata. Scrive che il film "sta per novanta minuti in bilico su una tragedia incombente (...)a ogni scena qualcuno potrebbe morire. Invece non succede". Ovviamente non succede, i soldati israeliani non entrano nelle case dei palestinesi uccidendo chi capita. "Il figlio maggiore sogna una cintura da kamikaze", perchè si "ribella ai sopprusi", non perchè vive in una societàche gli insegna a volerla e a odiare. Infine. "Non c'è giudizio politico se non nella premessa: occupare un'abitazione altrui non è una buona azione"... Ma la premessa mancante, almeno dall'articolo di Riva, e la spiegazione del perchè, per quali necessità militari nel contesto della lotta al terrorismo quella casa è stata occupata. Infatti, occupare un'abitazione altrui, per poi riconsegnarla ai propietari, allo scopo di salvare vite umane innocenti a noi sembra un'azione, se non buona, sicuramente legittima. Ecco il testo: Cosa c'è di più intimo e universale di una casa? In questa dì casa, dove abitano padre, madre e cinque figli palestinesi, fanno irruzione dei soldati israeliani, occupano il prima piano, obbligano la famiglia a stare sotto, fisicamente e metaforicamente. Perché ~ Non lo sanno nemmeno i militari, peraltro giovanissimi: ricevono ordini e li eseguono. Con uno spunto del genere (peraltro mutuato dalla realtà) il regista, Saverio Costanzo, 29 anni, al prîmo lungometraggio, poteva cadere nella tentazione buonista dell'incontro tra nemici` o, all'opposto, nell'esibizione di una massiccia dase di violenza. Nulla di tutto questo, per fortuna. II film, "Private", unico italiano in concorso al festival dî Locacarno, coproduziane Offside, Istituta Luce e Cydania in associaziane con Rai Cinema, sta per navanta minutî in bilico su un~a tragedia incombente, suspense dilatata, a agni scena qualcuno potrebbe morire. Invece non succede. La violenza esplicita è solo evocata. Non ce ne sarebbe bisogno. Quella implicita è devastante: nella rigida compartimentazione degli spazi alla bimba piccola è persino vietato far pipì di notte. Il padre, I'attore Mohammad Bakri, preside di scuola secondaria, una passione per la letteratura inglese, shakespearianamente vuole continuare ad essere. Potrebbe decide di andarsene. La facesse, lasciasse la casa, permetterebbe che ì suoi figli odiassero «prima me, pai laro stessi e infine gli israeliani». Come Ghandi, fa del proprio corpo la più efficace delle armi, lo usa per una forma di resistenza non violenta. Da li nan lo cacceranno, quel luogo è la sua identità. Ci voglîono cultura e saggezza per sopravvivere. I ragazzi la potrebbero scambiare per codardia, la loro è I'età dell'impazienza, della ribellione al sopruso. Così il figlio maggiore sogna una cintura da kamikaze e la gloria nel paradiso degli shahid. La stessa figlia varrebbe agire. Sarà in realtà I'unica a spiare îl mondo "altra" dei giovani in divisa dall'anta di un armadio: scoprendoli non poi così diversi, con le loro passioni per il calcia, una donna lasciata lontano dal fronte e la musica come linguaggio universale che sta a significare se non pace, almeno riposo. Superando l'eterna questione della legittimità del punto di vista, Costanzo decide di mettersi alla finestra e osservare una situazione. Non c'è giudizio politico se non nella premessa: occupare un'abitazione altrui non è una buona azione, a qualunque latitudine. Ma dal presupposto in poi, agiscono i personaggi, isolati dal contesto, e mettono in scena sentimenti basilari: paura, rassegnazione, coraggio. Nella location claustrofobica di una stanza sgorga dalle viscere il meglio e il peggio. II terzismo (diremmo noi) del regista entra in virtuoso cortocircuito con la passionalità di attori, israeliani e palestinesi, che necessariamente ci mettano più di una recitazione, trattando di un"annosa questione che li accompagna fin dalla nascita. Sul set calabrese, nella Locride, non pochi sono stati gli screzi che hanno prodotto sceneggiatura in corso d'opera. Col regista nel ruolo di arbitro íl più possibile imparziale. Il film non dà e non toglie speranza. Non è né disperante né consolante, salo una lente d'ingrandimento su un episodio specifico che invita a interrogarci su come ci comporteremmo noi in quella determinata situazione. Già questo è un risultato: ci obbliga a considerare la Palestina come un tema domestico, non più un didascalica reportage visto alla tv. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione dell'Espresso. 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