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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024

Ottobre 2013


L'idea di Palestina tra geografia e narrativa
Interviste a Mordechai Nisan e Eli Hertz






L'idea di Palestina tra geografia e narrativa


L’idea di Palestina tra geografia e narrativa

  • La parola “Palestina” è stata coniata dai romani per sostituirla al nome Giudea dopo la repressione delle Rivolte Ebraiche successive alla conquista romana.
  • “Palestina” è un termine che è stato in seguito usato per denominare l’area che oggi comprende Israele e i Territori sotto amministrazione dell’Autorità Palestinese.
  • Sotto il Mandato Britannico (1920-1948), la parola “Palestina” è stata reintrodotta per denominare l’area tra il fiume Giordano e il Mediterraneo, confinante con Siria, Libano, Transgiordania (oggi Giordania) e Egitto.
  • Dopo la fondazione dello Stato di Israele, la parola “Palestina” reca in sé l’idea nazionale del popolo palestinese, con le conseguenti richieste territoriali e nazionali.
La Palestina come termine geografico
  • Il nome biblico dell’area era in origine “Canaan”, in seguito diviso in Regno di Israele e Regno di Giuda, e poi in Samaria e Giudea.
  • Dopo la conquista romana di Gerusalemme, l’area è stata nominata Syria Palaestina e Gerusalemme Aelia Capitolina.
  • I dominatori che si sono succeduti hanno introdotto altri termini. I Crociati, per esempio, usavano l’espressione Terra Sancta (Terra Santa) o il latino Iudaea. Gli ottomani hanno diviso l’area in diversi distretti amministrativi (sanjak) compresi nella regione Siria (vilayet di Damasco).
  • Dopo la caduta dell’Impero Ottomano, l’area è passata sotto amministrazione Britannica, che l’ha chiamata Palestina (a est del fiume Giordano) e Transgiordania (a ovest del Giordano).
Palestina Mandataria
  • Il Mandato Britannico ha ufficialmente appoggiato la formazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina, destinando il territorio a est del Giordano per l’insediamento delle comunità ebraiche.
Poster sionista disegnato da Franz Kraus
  • Durante il Mandato le parole “Palestina” e “palestinese” avevano un significato geografico, usate con riferimento agli abitanti di nazionalità sia ebraica sia araba.
L’articolo del “Palestine Post” che annuncia la fondazione dello Stato di Israele, ora “Jerusalem Post”.
Un poster del Keren Hayesod: la versione yiddish parla di “Eretz Yisrael” (Terra di Israele), mentre quella inglese usa Palestina.
  • Le istituzioni ebraiche usavano regolarmente “Palestina” e “palestinese”, mentre solo negli anni ’40 i leader sionisti hanno deciso di nominare lo Stato ebraico “Israele”.
Uso contemporaneo del termine Palestina
  • Il termine Palestina significa oggi patria del popolo palestinese, ed è usato con riferimento alla lotta palestinese per l’indipendenza nazionale.
  • Dagli anni ’60 gli arabi hanno adottato “Palestina” e “palestinese” per indicare la propria identità nazionale e per avanzare le richieste d’indipendenza e sovranità territoriale sui territori contesi dopo il 1967.
  • Lo Stato di Palestina è considerato un legittimo diritto dei palestinesi e anche soluzione al conflitto arabo-israeliano, con importanti conseguenze politiche.
Richieste territoriali e territori restituititi da Israele come parte di accordi di pace o gesti verso la pace.
  • Mentre la Palestina è divenuta l’idea nazionale del popolo palestinese, il termine è usato in senso geografico riferimento alla stessa area. Pertanto le richieste territoriali dei palestinesi sono ristrette ai territori della West Bank/Giudea-Samaria e Gaza o anche al territorio israeliano?
  • La retorica che si è sviluppata dalla narrativa palestinese comprende esempi di usi erronei della parola “palestinese” allo scopo di delegittimare la storica connessione del popolo ebraico alla Terra di Israele. Pertanto i palestinesi sono definiti come popolo indigeno e gli israeliani come occupanti e usurpatori stranieri. Un esempio di tale retorica è la definizione di Gesù come palestinese.





Intervista a Mordechai Nisan


Intervista a Mordechai Nisan, Università Ebraica di Gerusalemme



Qual è l’origine della parola Palestina?
L’origine della parola “Palestina” è tra le più importanti questioni storiche e politiche e si deve alla decisione romana di conquistare la Giudea nel 70 e.v., portata a termine con la repressione delle Rivolte Ebraiche del 135. Come conquistatori stranieri con l’intenzione di eliminare la Giudea, in ebraico Yehuda, i romani hanno introdotto la parola Palaestina, derivata dal nome del popolo biblico dei filistei, in ebraico Plishtim. Pertanto i romani hanno rinominato questa terra sostituendo il termine Giudea con Palaestina, dal nome della popolazione che abitava la costa, i filistei, nella convinzione che il popolo ebraico non sarebbe sopravvissuto senza un territorio e che nel corso della storia sarebbe emerso un popolo palestinese. Ma non è mai esistito nessun popolo palestinese, non al tempo dei romani, non un millennio dopo, al tempo dei Crociati, e nemmeno nei periodi successivi in cui si sono succeduti diversi dominatori, tra cui i mammelucchi e i turchi-ottomani.

E chi sono allora i palestinesi?
La Terra di Israele è stata in un qualche modo chiamata Palestina, ma senza un popolo palestinese: non c’è un’identità palestinese, non c’è una letteratura palestinese né un popolo palestinese. Nonostante la regione sia stata chiamata Palestina fin dal tempo dei romani non si è mai formato un popolo palestinese. La formazione del cosiddetto popolo palestinese nel XX secolo è un’identità inventata e circostanziale, com’è stato per molti altri popoli nel Medio Oriente nello stesso periodo.
Si può dire, per esempio, che storicamente non esiste un popolo siriano, e oggi l’idea di popolo siriano non è meno dibattibile: gli abitanti della Siria si definiscono siriani, ma non c’è un’identità che li accomuni come popolo. Allo stesso modo, quando si parla dei popoli giordano, saudita o palestinese, bisogna considerare che queste sono invenzioni moderne divenute delle convenzioni terminologiche di valore politico che si riferiscono però a comunità senza valori comuni di coesione e solidarietà, che si dissolvono con la forza degli eventi, come dimostrano oggi i casi della Siria, l’Iraq e la Libia.

La parola “Palestina” si riferiva un tempo a un’area geografica del Vicino Oriente, ma è ora usata come concetto geo-politico che indica la patria e lo Stato del popolo palestinese. Com’è avvenuto questo cambio di significato?
La parola “Palestina” con l’uso odierno è stata introdotta nel corso del XX secolo al fine di delegittimare il Sionismo e di minare la validità storica del popolo ebraico e della sua identità formatasi nella Terra di Israele.
Da un punto di vista politico il termine “Palestina” è stato introdotto in opposizione a Israele, proprio per sostituirsi al termine “Israele”, così come i palestinesi tentano sostituirsi agli israeliani, fino ad arrivare all’assurdità storica che rappresenta Gesù come una figura palestinese, quando invece era un ebreo di Giudea. Questo è un esempio della macchina della propaganda palestinese che lavora dalla metà del ‘900.
L’idea di popolo palestinese è poi emersa negli anni ’50, dopo la fondazione dello Stato di Israele, per tentare di dare un’identità comune alle comunità arabe che vivevano nell’area conosciuta come Palestina. Il concetto si è sviluppato anche grazie ai movimenti politici come l’OLP e Fatah, ma l’uso del termine “Palestina”, benché privo di alcun significato nazionale, è misura del successo della campagna politica dei palestinesi.

Nel Suo ultimo libro “Only Israel West of the River”, Lei indica il processo di Oslo come il momento storico in cui l’idea di Stato palestinese ha avuto legittimazione giuridica, politica e storica. Ma se l’idea di uno Stato palestinese è emersa solo 20 anni fa, perché è politicamente data per scontata?
Bisogna ricordare che gli Accordi di Oslo del 1993 non menzionavano la fondazione di uno Stato palestinese, bensì facevano riferimento ad accordi temporanei come parte di un processo che avrebbe portato le parti alla risoluzione del conflitto. È fondamentale rilevare anche che gli Accordi di Oslo non fanno alcuna menzione dell’idea di Stato palestinese: né come obiettivo, né come base per un accordo futuro. Nemmeno il cosiddetto “Oslo II” nel 1995 o i successivi accordi fanno riferimento a uno Stato palestinese. La legittimità dello Stato palestinese non è quindi emersa con Oslo.
Ci sono altre personalità e forze che parlavano di uno Stato palestinese: l’OLP ha incominciato negli anni ’80; alcuni israeliani hanno incominciato a parlarne negli anni ’90, per entrare poi nel dibattito politico sotto la presidenza Clinton negli Stati Uniti e infine con Bush. È qui che l’idea di fondare uno Stato palestinese prende piede e finisce per esser considerata la chiave della risoluzione del conflitto israelo-palestinese.

In che modo la realizzazione delle aspirazioni nazionali palestinesi non dovrebbe portare alla pace?
Secondo questa visione, se ci sarà uno Stato palestinese in Giudea, Samaria (chiamate Cisgiordania) e Gaza, si realizzeranno le aspirazioni nazionali del popolo palestinese, portando a una risoluzione del conflitto e a una coesistenza politica tra israeliani e palestinesi. Con Ariel Sharon in Israele e Bush in America, l’idea di fondare uno Stato palestinese entra definitivamente nel dibattito politico e finisce per esser considerata la soluzione del conflitto e uno sforzo per la pace. Ma si deve tenere a mente che la creazione di uno Stato palestinese è considerata un atto di guerra contro Israele e il Sionismo, per avanzare altre pretese contro la sovranità e la legittimità israeliane, finendo per sostenere che tutta la Palestina appartiene ai palestinesi, e che Israele è uno stato illegittimo, quali che siano i confini.

Sta dicendo che uno Stato palestinese è incompatibile con l’esistenza di Israele?
La questione è che la stessa idea di Stato palestinese, da qualsiasi punto di vista, politico, ideologico o di sicurezza, è un’arma nell’arsenale della lotta palestinese contro Israele, e non è avanzata con autentico spirito di riconciliazione tra Israele e i palestinesi.
Gli arabi ritengono che la costituzione di uno Stato palestinese porterà Israele alla demoralizzazione, con la conseguente distruzione delle comunità israeliane nei territori da consegnare; lo Stato palestinese è considerato come un’arma per colpire Israele, che dovrà restringersi territorialmente. Questo processo rischia di indebolire la vitalità politica di Israele e deve esser evitato a tutti i costi.

Si riferisce alle conseguenze di un eventuale ritiro dai Territori?
Uno Stato palestinese in Cisgiordania è una minaccia dal punto di vista israeliano. Ci sono quanti sostengono che è interesse israeliano che i palestinesi abbiano il loro Stato, smantellando ciò che chiamano “occupazione”, ossia l’amministrazione israeliana in Giudea e Samaria; ma è un errore fatale.
Israele ha bisogno di quella terra come patrimonio; Israele richiede quella terra per scopi di sicurezza; infine Israele deve avere quella terra per fermare lo tsunami politico palestinese che irromperebbe al suo interno.
Noi israeliani siamo persone ragionevoli e conosciamo la cultura politica mediorientale e sappiamo come le affermazioni retoriche sono usate per manovrare e confondere le persone per indurle a credere in cose che non sono vere. Questo è il vero significato, a mio vedere, di ciò che comporta l’idea di Stato palestinese.

Lei usa anche l’espressione “Stato dell’OLP”, sostenendo che la lotta palestinese è di per sé una forma di estremismo e che la formazione dello Stato palestinese è contro gli interessi di sicurezza di Israele. La formazione dello Stato palestinese è a Suo avviso una minaccia letale contro la vitalità politica di Israele. Quanto è una questione di sicurezza e quanto una questione di narrativa?
Quando Israele è stata fondata nel mezzo delle rivolte arabe nel 1948, gli arabi del Medio Oriente e di Palestina hanno perso la guerra sia da un punto di vista pratico sia pragmatico: molti di loro sono fuggiti, in molti hanno perso le loro case, erano senza indipendenza nazionale, ma non hanno mai perso la convinzione che la loro causa fosse giusta. E come è proprio della tradizionale cultura tribale, non dimenticano e non perdonano. Fino ad oggi, coloro che si definiscono palestinesi o arabi di Palestina, ovunque siano nel mondo, non dimenticano che vengono da una regione che chiamano Palestina, serbando memoria del nome del villaggio da cui provenivano e magari ancora conservando la chiave della casa che avevano abbandonato. Pertanto, non si sono mai rassegnati da un punto di vista ideologico che Israele li ha sconfitti nel 1948, e che è molto improbabile che ritorneranno nei luoghi dove vivevano in conseguenza a un’eventuale sconfitta di Israele; questo non accadrà.
I palestinesi hanno elaborato una certa narrativa – è un termine che Lei ha usato in maniera molto appropriata perché contiene esattamente l’idea di narrazione, ossia raccontare una storia, che sia un racconto personale o un’oggettiva riflessione della realtà.
La narrazione delle identità nazionali comporta anche una certa eguaglianza, ma benché siano certamente eguali per coloro che le fanno proprie, non sono così da un punto di vista storico. La rinascita della narrativa nazionale ebraica è basata sulla storia ed è molto difficile parlare di veridicità, accuratezza e fatti in un periodo in cui il post-modernismo ha fatto della verità qualcosa di vago. La gente parla oggi di interpretazioni, narrative e significati.

E la narrativa ebraica?
Parlare degli ebrei nella Terra di Israele e della rinascita di Israele come Stato ebraico significa dare una versione veritiera della sequenza cronologica della storia politica, nazionale e umana. Da sempre, fino a tre, quattro mila anni fa, esiste una verità storica che consiste nel legame dell’identità nazionale del popolo ebraico a un angolo preciso di terra a questo mondo, che è la regione che nella Bibbia è chiamata Canaan, poi chiamata Israele o Giudea.
È altresì storicamente vero affermare che il legame tra il popolo ebraico e la Terra di Israele reca in sé l’intrinseca autenticità della validità storica. Questo è un pilastro della storia e comporta che gli ebrei devono essere riconosciuti come un datum nella storia: quando i romani hanno cancellato il nome di Giudea dalla mappa, come dicevo all’inizio, sapevano ciò che stavano facendo e il loro scopo era di cancellare la verità storica, sostituendo la Palestina senza un popolo palestinese alla Giudea e agli ebrei.
Il mondo si è poi abituato alla prassi lessicale, e l’uso del termine “Palestina” si è consolidato, ma non vuol dire niente di più. I Crociati, per esempio, quando hanno conquistato questa terra sapevano che non c’era un popolo palestinese, bensì solo popolazioni di lingua araba che si identificavano con il popolo arabo o più in generale con i musulmani.

Ha appena detto che i diritti degli ebrei sulla Terra di Israele recano in sé una verità storica, ma perché allora agli ebrei è sempre richiesto di giustificare la propria esistenza come popolo e come nazione?
Non bisogna dimenticare che la fondazione di Israele oggi è in realtà una “ri-fondazione” e dovremmo prender coscienza del fatto che gli ebrei stanno “ri-tornando”. Come ha detto una volta il premio Nobel per la letteratura Shmuel Yosef Agnon, “è solo per una catastrofe della storia che non sono nato a Gerusalemme”, e proprio perché gli ebrei sono sempre stati erranti, in fuga, vittime di esili e persecuzioni, io stesso sono nato, per esempio, in Canada.
Il primo significato nazionale che noi ebrei portiamo con noi stessi come popolo è che siamo nati proprio come popolo nella terra di Israele, e che siamo tornati nella nostra terra nel XX secolo grazie a una straordinaria impresa, a sforzi e fede.

Quindi l’identità nazionale ebraica è il legame con la Terra di Israele?
Ciò che voglio dire è che la narrativa ebraica non è una storia raccontata nelle generazioni. È forse un profondo mistero della storia il motivo per cui siamo legati come popolo solo a questa Terra, quando nessun altro popolo è stato destinato a questo posto, e serbiamo questo legame nei nostri cuori e nella nostra memoria, per cui siamo una nazione solo ed esclusivamente in Terra di Israele.
Qui in Terra di Israele si è sviluppata la nostra vita nazionale. Questa è l’essenza del popolo ebraico: siamo grati ai nostri antenati che hanno mantenuto viva l’idea di popolo ebraico legato alla Terra di Israele come elemento fondante la nostra identità e la nostra raison d’être.

Sembra che il termine “Palestina” sia evoluto da un concetto meramente geografico a un concetto politico, ma che conseguenze ha questa evoluzione sul popolo ebraico e su Israele?
Effettivamente è proprio così! Ci sono diverse spiegazioni.
Una è storica, e attiene al posto del popolo ebraico nella storia, ossia il fatto che gli ebrei abbiano sempre dovuto giustificare chi sono, in cosa credono, come conducono la loro vita, come vedono il loro posto tra le nazioni del mondo. Il popolo ebraico è legato al divino come parte del nostro venire nella storia. Non è una questione di fede individuale, ma una questione legata all’emergere degli ebrei antichi o degli israeliti nella storia, legata cioè all’idea di D-o. Il popolo ebraico non si è formato come sviluppo sociologico di famiglie e tribù che si sono unite nello sviluppo di un’identità comune basata su lingua e territorio.
L’emergere del popolo ebraico nella storia è un caso unico, basato sull’idea che D-o e Abramo e i suoi discendenti sono legati da un patto, che è stato interiorizzato dal popolo ebraico per migliaia di anni. Quando nasce un bambino ebreo, all’ottavo giorno è circonciso: questo rituale risale a migliaia di anni fa come parte del patto tra Abramo il nostro patriarca e D-o, e quando gli ebrei circoncidono il loro figlio maschio non lo fanno per scelta, ma perché è qualcosa di molto profondo e sedimentato nella fede, nella tradizione e nel modo di essere ebraici.
Nonostante i numerosi tentativi di annichilire l’identità ebraica, noi ebrei abbiamo mantenuto la nostra specificità, anche realizzando le nostre aspirazioni nazionali con la fondazione dello stato di Israele come Stato ebraico, accolto nella generale ostilità internazionale. Per questo la mia prima spiegazione è storica: noi ebrei non possiamo sfuggire al nostro destino ebraico, mentre il mondo non può liberarsi o astenersi dall’ossessione e dall’odio per gli ebrei soltanto.

C’è anche una spiegazione politica?
Un’altra spiegazione, più contemporanea, è la delegittimazione. Ci sono diverse guerre che si possono combattere contro un nemico: Israele è il nemico, contro cui gli arabi hanno condotto delle guerre militari fallimentari, delle guerre economiche concretatesi in boicottaggi fallimentari, così il recente metodo di guerra psicologica consiste nel demonizzare gli israeliani delegittimando Israele nel mondo.
La delegittimazione ha lo stesso meccanismo di una campagna, il cui risultato mostrerà il successo della lotta araba contro Israele. Le campagne hanno lo scopo di convincere la gente di qualcosa e di cambiare il loro comportamento – si pensi alla campagna anti-fumo: adesso è proibito fumare ovunque, perché la gente è convinta che fumare in pubblico sia un comportamento socialmente illegittimo. Nel caso di Israele, si ha una campagna iniziata da diversi attori, compresi i palestinesi e i musulmani in generale, sostenuti dagli europei e anche da molti ebrei, il cui obiettivo è delegittimare Israele costruendo un’immagine dello Stato ebraico composta di stereotipi negativi, attraverso anche l’uso di slogan, come l’occupazione, la cancellazione dell’identità islamica a Gerusalemme, la discriminazione degli arabi israeliani, l’illegalità degli insediamenti.
Basta ripetere questi slogan nei media, nelle discussioni pubbliche, nei fora politici e si avrà come risultato indurre le persone a credere non in ciò che è reale ma in ciò che sentono ripetere di continuo. Lo scopo principale è minare il senso di giustizia nazionale di Israele, che per ora si sta dimostrando fallimentare.

Lei sostiene che i palestinesi non abbiano diritto a fondare uno Stato palestinese nella storica Terra di Israele, comprese Giudea e Samaria. Anche non riconoscendo l’esistenza di un’identità nazionale palestinese, gli arabi palestinesi hanno diritto a uno Stato. Quale può essere secondo Lei una soluzione giusta ed equa per gli arabi che vivono nei territori?
Poiché “Palestina” è un termine e un nome usato in opposizione e in sostituzione a Israele, è interesse nazionale di Israele impedire la fondazione di uno Stato palestinese. I palestinesi la chiamano Palestina, mentre noi la chiamiamo Israele: se diamo loro una parte di terra, vedranno questa concessione come una vittoria, e cercheranno poi di liberare tutto il territorio che loro chiamano Palestina. È un aut-aut.
Gli ebrei, che sono caratterizzati nella storia come un popolo con una missione morale, hanno un profondo senso di giustizia, avendo anche portato al mondo l’idea di legge come mezzo per governare le comunità umane. Gli ebrei hanno lottato per la libertà e l’auto-determinazione degli afro-americani negli Stati Uniti e dei neri in Sudafrica. In questo senso anche Israele è un’impresa morale, che consiste nella liberazione ebraica dall’umiliazione, dalla persecuzione e dalla repressione, pertanto lo Stato ebraico era ed è una questione di giustizia.
Tuttavia non si deve dimenticare che Israele è uno Stato e verso i palestinesi non può comportarsi secondo principi di morale astratta, bensì sulla base del proprio interesse nazionale. Pertanto dare ai palestinesi qualcosa perché non hanno niente è considerato un meraviglioso gesto morale, ma è essenzialmente contrario agli interessi di Israele. Ci sono dei criteri di decisione morali, politici e pragmatici, ma uno Stato non dovrebbe arrecare danno a se stesso.
A questo proposito, si può dire che i palestinesi, come hanno scelto di definirsi, e il loro futuro politico potrebbe e dovrebbe essere oltre il fiume Giordano. La Giordania è uno Stato illegittimo, formatosi dal colonialismo britannico nel 1920 in un’area abitata da diverse tribù arabe. Non c’è una letteratura nazionale giordana, non c’è una storia giordana, non c’è un popolo giordano perché è un’entità artificiale. In passato gli arabi erano adusi attraversare le due sponde del fiume Giordano emigrando ad Est, verso il territorio allora chiamato Transgiordania, che è poi diventato il Regno di Giordania nel 1950.
In Giordania i palestinesi rappresentano la maggioranza della popolazione e Amman, capitale della Giordania, è la più grande città palestinese al mondo. Circa due terzi dei giordani sostengono di avere origini palestinesi. Non c’è altra soluzione a livello regionale e globale che considerare la Giordania il centro politico del popolo palestinese: quella è la loro casa, dove sono la maggioranza e che dovrebbe essere il loro Stato.
La Giordania, con o senza casa reale Hashemita, dovrebbe esser riconosciuta come Stato dei palestinesi, attirando i palestinesi che abitano in Cisgiordania, nei campi profughi in Libano e Siria. In Giordania i palestinesi avrebbero una patria, con una bandiera e con un senso di indipendenza politica, dignità nazionale e sovranità nazionale. Il fiume Giordano dovrebbe poi esser considerato un confine politico, e si spera un confine pacifico, tra Israele lo Stato ebraico a ovest e lo Stato arabo a est, chiamato Palestina.
Questa soluzione sarebbe poi in linea con l’illegittimità del Regno Hashemita; sarebbe in linea anche con lo status demografico dei palestinesi in Giordania così come con gli accordi di Oslo la cui intenzione era di separare gli ebrei dagli arabi.
Sarebbe poi una buona soluzione al conflitto, che sembra irrisolvibile, ma per risolverlo dobbiamo prima riconoscere il diritto di Israele a esistere come Stato ebraico, il diritto degli israeliani a vivere una vita normale, e pensare alla Palestina a Est e non ad Ovest del fiume Giordano.
Questo richiede, tuttavia, un radicale cambiamento nel modo di pensare politico, e per questo “Giordania come patria palestinese” dovrebbe essere un nuovo paradigma per la soluzione del conflitto.





Intervista a Eli Hertz


Intervista a Eli Hertz, presidente di “Myths and Facts” http://www.mythsandfacts.org/index.asp



Il termine “Palestina” da un punto di vista politico è usato col significato di “patria del popolo palestinese” anche se non è sempre stato così. Qual è il significato originale di “Palestina”?
La Palestina è un’area geografica, non ha niente a che vedere con una nazionalità. Gli arabi hanno inventato da questa parola un’entità nazionale negli anni ’60, definendosi “palestinesi” per scopi politici. Ritengono che gli israeliani siano degli invasori e che l’area geografica definita Palestina appartenga a loro esclusivamente.
La parola “Palestina” non è nemmeno una parola di origine araba. Il termine “Palestina” è stato coniato dai romani attorno al 135 e.v. dal nome della popolazione egea che si era in antichità stabilita nell’area costale di Canaan: i Filistei. Il termine “Palestina” è stato scelto per rimpiazzare il termine ebraico “Giudea” in conseguenza alla vittoria romana sul popolo ebraico sconfitto durante le Rivolte Ebraiche contro Roma.
Nel tempo, la parola latina Philistia si è trasformata in Palaestina, da cui Palestina. Nei successivi 2000 anni la Palestina non è mai stata né uno Stato indipendente e non si è mai formato un popolo palestinese come gruppo nazionale separato dal popolo arabo, nemmeno nei 1300 anni di dominio musulmano, quando cioè la Palestina era parte dell’Impero Ottomano.

Per Palestina, tuttavia, s’intende anche un popolo palestinese…
La Palestina è stato ed è un termine solamente geografico. Per questo in epoca moderna le parole “Palestina” e “palestinese” sono state usate con riferimento a tutti gli abitanti dell’area geografica compresa tra il Mediterraneo e il fiume Giordano – ebrei palestinesi e arabi palestinesi.
Fino agli anni ’60, infatti, la maggior parte degli arabi in Palestina si identificava come parte della grande nazione araba o come cittadini della “Siria meridionale”. Il termine “palestinese” indicante la nazionalità di un arabo di Palestina è un nome che è stato usato dagli arabi negli anni ’60 come parte della tattica iniziata da Arafat per definire gli ebrei degli usurpatori. Secondo questa visione, gli arabi in Israele e nei territori sono rappresentati come popolazione indigena, e questo processo d’invenzione di un popolo è servito ai palestinesi a porsi sullo stesso piano degli ebrei nell’avanzare richieste di avere uno stato indipendente.

Che cosa implica l’uso politico del termine “Palestina”?
Nel marzo 1997 Zahir Muhsein, membro direttivo dell’OLP ha rilasciato un’intervista al giornale olandese “Trouw”, in cui ha dichiarato che “oggi parliamo dell’esistenza di un popolo palestinese per ragioni esclusivamente politiche e tattiche, poiché gli interessi nazionali arabi impogono la creazione di un popolo palestinese distinto e in opposizione al Sionismo”.

Ha appena detto che per “palestinesi” s’intendevano sia gli ebrei sia gli arabi. Il famoso poster sionista disegnato da Franz Kraus per l’Agenzia Ebraica recava, infatti, la scritta “Venite a visitare la Palestina”. Ora “palestinese” è un termine usato solo per gli arabi: come mai?
Storicamente, prima che gli arabi inventassero l’esistenza di un popolo palestinese, non esisteva un tale gruppo nazionale arabo distinto e lo dimostrano gli innumerevoli documenti prodotti durante il Mandato britannico che parlano di “ebrei di Palestina” e “arabi di Palestina”, non invece di “ebrei” e “palestinesi”.
È interessante notare che, prima che gli ebrei si chiamassero israeliani nel 1948 (quando il nome Israele fu scelto per il neo-nato Stato ebraico), il termine “Palestina” fosse usato quasi esclusivamente con riferimento agli ebrei e alle istituzioni create dai nuovi immigranti ebrei nella prima metà del XX secolo, cioè prima dell’indipendenza. Per esempio:

  • Il giornale oggi conosciuto come “Jerusalem Post”, fondato nel 1932, si è chiamato “Palestine Post” fino al 1948.
  • La banca di Israele, Bank Leumi L’Israel, era la “Anglo-Palestine Bank”, un’impresa bancaria ebraica.
  • L’Agenzia Ebraica, istituzione del movimento sionista fondata nel 1929 per favorire l’immigrazione ebraica, si chiamava “Agenzia Ebraica di Palestina”.
  • La sede del movimento sionistico americano negli anni ’30 si chiamava “New Palestine”.
  • L’Orchestra Filarmonica di Israele, fondata nel 1936 da ebrei rifugiati fuggiti dalla Germania nazista, era chiamata “Orchestra Sinfonica di Palestina”, composta di circa 70 “ebrei palestinesi”.
  • Lo United Jewish Appeal è stato fondato nel 1939 dalla fusione dello United Palestine Appeal e dell’organo di raccolta fondi della Joint Distribution Committee.
Basta anche guardare il famoso film degli anni ’60 “Exodus”, tratto dal romanzo di Leon Uris, e si vede che il termine “Palestina” non aveva il significato che ha ora: per esempio, il personaggio principale, il pioniere ebreo nato in Terra d’Israele chiamato Ari ben Canaan, parla del suo amore per la Palestina.

Gli arabi del Vicino Oriente si definiscono palestinesi, che Lei ritiene un’identità inventata. Come si è sviluppata dunque la narrativa nazionale palestinese?
I palestinesi hanno avuto successo col revisionismo storico e hanno fatto il lavaggio del cervello al mondo introducendo la “grande bugia” di un popolo palestinese; questo successo li ha spinti a sostenere di recente che sono i discendenti dei Filistei e ancor prima dei Cananei. In questo modo possono definirsi doppiamente vittime degli ebrei: degli israeliti che hanno conquistato Canaan in epoca biblica e degli israeliani oggi. Una pura invenzione. Gli archeologi spiegano che i Filistei erano un popolo mediterraneo che si è stabilito sulla costa di Canaan nel 1100 a.e.v. Non hanno alcun legame con gli arabi, che sono un popolo nomade originario della Penisola Arabica.
Come ciò non bastasse, Arafat ha anche dichiarato che “gli arabi palestinesi sono discendenti dei Gebusiti”, scacciati dal Re David con la conquista di Gerusalemme. Arafat ha anche detto che “Abramo era iracheno”. A una vigilia di Natale, Arafat ha dichiarato che “Gesù è palestinese”: un’affermazione cha ha dell’assurdo. Questa stessa affermazione è stata poi ripresa da Hanan Ashwari, araba cristiana, in un’intervista rilasciata in occasione della Conferenza di Madrid, in cui dichiara: “Gesù Cristo è nato nel mio Paese, nella mia terra” e cha continuato dicendo che lei stessa rappresentava “la discendente dei primi cristiani” – i discepoli di Gesù che contribuirono a diffondere il Vangelo attorno nell’area di Betlemme 600 anni prima della conquista araba. Se si prendono per vere le sue parole, allora potrebbe anche dire di essere ebrea!

Anche la richiesta di autodeterminazione avanzata dai palestinesi è frutto di un’invenzione?
I palestinesi non hanno nulla che li distingua da un punto di vista culturale dagli altri arabi. Non possono accampare pretese di alcuna particolarità che li distingua dal resto della nazione araba. Come innovazione, i palestinesi hanno introdotto la pratica dei dirottamenti aerei, perpetrati fin dal 1968, e del terrorismo suicida, un’arma politica spietata e affinata dall’epoca degli Accordi di Oslo nel 1993 e che sta ora trasformando i giovani arabi in bombe suicide per colpire altri civili. In nessun altro Paese al mondo i bambini di una scuola elementare imparano a recitare poesie i cui versi esaltano il terrorismo: “afferrerò il mio animo con le mie mani e lo getterò negli abissi della morte”.
Con la nuova guerra lanciata dai palestinesi contro Israele, l’Intifada al Aqsa iniziata da Arafat nel settembre 2000, le richieste palestinesi di avere uno Stato sono state prese in considerazione. Barry Chamish, Dov B. Fischer e molti altri cercano di stabilire la verità. Se è vero che c’è una storia palestinese antica, perché non c’è nemmeno un artista o scienziato palestinese famoso, o almeno un’opera letteraria o un’invenzione che caratterizzi i palestinesi come popolo?





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